La natura e le norme. Una risposta a Carlo Rovelli

domenica, 13 Dicembre, 2020
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In assenza, per ora, di altri interventi, vorrei ringraziare Carlo Rovelli della sua replica, e provare a rispondergli almeno sul punto cruciale. Non senza un paio di premesse.

E’ indubbio, la mia posizione su Heidegger è troppo segnata da anni e anni di insegnamento della fenomenologia, anni in cui vedevo struggere i pochi semi, che mi sforzavo di sviluppare nel confronto coi problemi più che con gli autori, di quell’aurora neo-illuministica che la fenomenologia è stata, sola nel Novecento, ai suoi inizi. Vedevo quei semi travolti nelle anime dei ragazzi dal fiato di strumenti di ben altro calibro dal mio. Tanti e tanti in tutta l’Europa “continentale”, a soffiargli dentro quelle litanie fatte apposta per non pensare, che purtroppo hanno inzuppato il cervello dell’intellighentsja (di “sinistra”, per di più!) europea per oltre mezzo secolo, dopo che figuri come Kojève o Beaufret  avevano sdoganato e rilanciato il Pastore dell’Essere. E con  l’aiuto di molti fu impastata quella ganga pastosa e opaca ma tranquillizzante e reboante, mista di hegelianesimo marxista e destinalità heideggeriana, ben armata contro il “capitalismo” e la modernità, e totalmente ignara di responsabilità personali nello spettacolo della Macchinazione degli Enti, che andò a formare il canone della filosofia cosiddetta “continentale”, appunto.

Ecco allora che vedermi Martin della Selva Nera rivalutato da un’ intelligenza brillante e da un fisico che mi dicono geniale è stato un colpo al cuore: eppure, caro Rovelli, lei ha  ragione a dire che da chiunque, perfino dai sofisti, si può imparare qualcosa: “non disprezzo niente” era il motto di Leibniz.

Vengo all’essenziale della sua replica. Certo, le norme si sono sviluppate a partire dalla nostra biologia, la nostra storia, la nostra cultura: credo non ci sia dubbio. Ma allora lei ha un concetto molto lato di “naturalismo” – se include anche, fra ciò che la scienza naturale può spiegare, che so: la logica. L’insieme dei vincoli sintattici, semantici e pragmatici, violando i quali non solo non riusciamo a fare scienza, ma neppure più a capirci. Alcuni credono che questi vincoli siano semplicemente un tipo di leggi naturali, e questo è in effetti il programma del cognitivismo classico. Altri ricorrono ad approcci più convenzionalistici, socio-linguistici etc. Forse è l’una o l’altra delle possibilità, compresi i modelli dell’embodiment, lo studio delle emozioni eccetera, che lei intende per “naturalismo”. Mario De Caro lo chiama “naturalismo liberalizzato”: e io concordo che qua dentro si trovi ogni spiegazione desiderabile, perché l’unica cosa che si esclude dalle spiegazioni interessanti è il “soprannaturale” (però se ben ricorda è dai tempi di Socrate che i filosofi respingono questa opzione).

Solo che questo nostro accordo lascerebbe aperta la questione forse veramente essenziale. I valori su cui le norme si fondano sono proprietà “naturali” o proprietà “ideali”  delle cose (situazioni, azioni, eventi, fatti, persone etc.)? Nel primo caso – tipicamente, in una spiegazione darwinistica – perderebbero la loro universalità normativa. Ad esempio, supponiamo che in una certa fase dell’evoluzione una certa pratica, per esempio sacrificare gli anziani, abbia determinato un notevole vantaggio evolutivo in una popolazione: resta la questione, era cosa buona e giusta? La risposta corrente dal punto di vista naturalistico è relativistica: sì, per loro. Non in altre condizioni, etc. – Grosso modo questo è anche il punto di vista utilitaristico. Lei sarebbe in buona compagnia. Fossi un fisico, tuttavia, sarei molto imbarazzato da una tesi di relatività dei valori epistemici, ad esempio coerenza, consistenza, non-contraddittorietà. Sarebbe molto interessante sentire la sua opinione su questo punto.

Ora però questo relativismo equivale a una identificazione dei valori (supponiamo: giustizia) con i beni sempre relativi in cui i valori sono di volta in volta parzialmente realizzati (supponiamo: l’Obama Care). Per un fenomenologo, relativi appunto sono questi ultimi, non le qualità assiologiche stesse: cioè non è relativa la verità o falsità delle proposizioni assiologiche che contengono i corrispondenti  predicati – e che, proprio come le proposizioni della fisica, possono aspettare molti secoli perché si trovi una qualche parziale evidenza a loro sostegno. Ma solo se si ammette che ci sia in materia un vero da scoprire o almeno da approssimare ha senso la discussione razionale. Sennò ha semplicemente ragione chi vince, la tradizione o la forza. Heidegger era invece totalmente relativista, e se è per questo anche in materia di fatti.

Ecco, in questo modesto senso non credo che il naturalismo “spieghi” gli aspetti più cruciali della normatività, e certamente questo non vuol dire che li spieghino il soprannaturalismo, il papa o Dio. Credo veramente che il cantiere di una assiologia (teoria dei valori) cognitiva, incorporata e razionale (dunque ovviamente implicante tutto il sentire, sensoriale e affettivo) sia stato IL progetto della fenomenologia nascente (Husserl Scheler Pfaender Reinach Stein Spiegelberg Kolnai Von Hildebrand etc.) per un nuovo umanesimo e un nuovo universalismo cosmopolitico (fra l’altro). Fu distrutto dai nazisti, e lì ha ragione, Heidegger non ha cambiato granché le cose. Ma fu anche soffocato, più tardi, da maxiporzioni  d’Essere heidegger-hegeliane (inclusi storicismi etc.), diventate poi pilloloni  postmoderni, magari con qualche fremito postcoloniale,  o peggio complottismi biopolitico-tecnologici –  nella seconda metà del Novecento e quasi fino ai nostri giorni. E infatti: di quel cantiere dell’assiologia da rimettere in piedi ha mai sentito parlare? Troppo a lungo (ma le cose stanno cambiando)  i professori di fenomenologia nel mondo sono sopravvissuti come chiosatori di testi e basta. Come se lei si accontentasse di chiosare Einstein.

Grazie comunque per l’occasione di questa chiacchierata, semmai avrà avuto la pazienza di arrivare fin qui.

 

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