A proposito dell’uso distorto dell’idea moderna di un tribunale della ragione. Abbiamo davvero bisogno di argomentare una difesa dell’Antichità? A quanto pare sì

lunedì, 5 Aprile, 2021
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Il suprematismo degli anti-suprematisti. Riprendiamo da Il Foglio l’appello pubblicato il 21 marzo 2021 su Le Figaro di professori universitari francesi e italiani, ellenisti, latinisti, storici e filosofi. Tra questi, Chantal Delsol e Rémi Brague dell’Institut de France, Pierre Vermeren dell’Université Paris I-Panthéon-Sorbonne e Jean-Marie Salamito dell’Université de la Sorbonne. Personalmente, la difesa dell’Antichità attraverso la difesa dell’Umanesimo, come suggerisce il titolo dato da Il Foglio, al di là del fatto che sia più o meno condivisibile, non coglie il punto essenziale. Se si trattasse del V, VI, VII … XII, XIII o XIV secolo, non dovremmo forse egualmente indignarci? Ogni ricostruzione storica, con buona pace delle teorie avalutative, implica essenzialmente giudizi di valore, anche quando raccontiamo la nostra modesta biografia. Questo non inficia minimamente il rigore del metodo storiografico, basato sulla attestabilità intersoggettiva non meno che sull’interpretazione contestuale, i cui ineludibili limiti non andrebbero drammatizzati: anche la dimostrazione del più semplice dei teoremi geometrici implica un’interpretazione contestuale, senza che questo invalidi il contenuto logico dei suoi enunciati. Così come la prospettività caratteristica dei valori, d’altronde, non inficia la loro argomentabilità e adottabilità da parte di chicchessia. Ammesso che abbia senso qualcosa come un “tribunale della ragione” storica, quindi, meriterebbe un approfondimento il “nostro” o altrui diritto di sentirci parte meritevole e privilegiata della giuria.

Lo studio dell’Antichità è nocivo. È quanto affermano oggi alcuni professori di storia antica, di latino e di greco in varie università americane. Un movimento partito da Stanford sta mettendo in discussione l’esistenza di queste discipline (gli ‘studi classici’) nei campus universitari, sostenendo che imporrebbero nell’istruzione un “suprematismo bianco di ispirazione neocoloniale” (come ha scritto Raphaël Doan sul Figaro Vox lo scorso 11 marzo). A tutto ciò, in Francia, si è aggiunto un dibattito sull’abbandono da parte dei musei nazionali dei numeri romani in alcuni cartelli espositivi, perché il pubblico non saprebbe più leggerli. Invece di imparare i numeri romani, cancelliamoli! Gli autori greci e latini, schiavisti e ostili ai barbari, erano dunque razzisti, conservatori, guerrieri, imperialisti e misogini? Non è totalmente falso, ma sono lungi dall’essere gli unici nella storia, e ciò non giustifica assolutamente la loro cancellazione senza uno sforzo di contestualizzazione e di analisi delle loro posizioni nel quadro della epoca in cui vissero, e non nel nostro. In Omero, Achille è un sanguinario, ma il poeta gli mette in bocca una riflessione toccante sul senso della vita. Anche Ettore trucida allegramente i suoi nemici, ma sembra più umano perché è una vittima. Se l’imperatore Augusto è un autocrate, Cicerone è morto per avergli rimproverato, quando ancora si chiamava soltanto Ottavio, la sua complicità con Antonio. Sant’Agostino non ha messo sotto accusa la schiavitù, ma ha contribuito alla nostra concezione di umanesimo moderno, e lo ha fatto in un’epoca in cui la ricchissima cristiana Melania la giovane affrancava in massa i suoi schiavi.

Cancellare Atene e Roma dalla storia degli uomini, significa ostracizzare la Ragione (il logos greco) e mettere al bando la Legge (i Codici giuridici romani). Significa uccidere Platone e calpestare la nozione di equità, inventata da Roma. Per ora teniamo da parte la questione della fede (Gerusalemme), se è possibile farlo, cosa di cui dubitiamo. Ciò che ci sembra più importante è che la martellatura dell’Antichità, cancellata dalle memorie come l’effigie dei proscritti a Roma, sia un tragico embargo sulla memoria e un rifiuto della speranza, una negazione pura e semplice del futuro. L’adoperarsi con ogni mezzo per organizzare l’amnesia del passato elimina qualsiasi speranza per il domani. Virgilio racconta nell’“Eneide” il modo in cui Enea è fuggito da Troia in fiamme, portando il suo anziano padre sulle spalle. Disegnando questa immagine in alcuni versi magnifici, il poeta non parla solo di Enea, di Anchise, di Troia e di Roma, ma anche di noi, oggi. Ecco il verso più bello nel racconto dello stesso Enea, che riporta le condizioni della sua fuga: “Cessi, et sublato montes genitore petivi (Mi rassegnai e sollevato il padre mi diressi sui monti)”, (Eneide II, 804). C’è tutto in queste parole: il passato e la sconfitta (Troia abbandonata), il peso della tradizione (il genitore che la pietas filiale impone di salvare), il futuro che si intravede in lontananza, così difficile da descrivere (i monti all’orizzonte). André Gide, commentando questo verso straordinario, che chiude lo splendido canto II dell’“Eneide”, notava laconicamente, ma con giustezza: “Spettacolo dell’umanità”. Gli iconoclasti contemporanei dell’Antichità rifiutano di assistere allo spettacolo della nostra imperfetta umanità, sia per odio di sé, sia per volontà mortifera di autodistruzione o di convenienza politica, sia per paura. Si allontanano da loro stessi, si tradiscono e tradiscono l’umanesimo che – non ne sono nemmeno consapevoli – trascende la loro piccola persona così come l’umanità trascende il destino di Enea. Non lasciamoci andare al decadentismo ad ogni costo, mille ragioni ci trattengono dal farlo. Ma come si può non pensare a Cioran quando scriveva che una “civiltà marcescente scende a patti con il suo male?”. Una società malata, aggiungeva, “ama il virus che la consuma, non si rispetta più”. Essa non osa più affrontare la sua immagine autentica nello specchio della letteratura, bensì indietreggia dinanzi all’oscurità della sua anima come la storia la rivela. Dovrebbe invece farne il suo studio preferito, per capire meglio sé stessa ed esorcizzare i suoi peggiori demoni (…) Per lo storico, cancellare il passato equivale a un’epurazione; non serve a nulla cancellarlo, e conoscerlo meglio è un’ardente pratica di consapevolezza.

La traduzione è di Mauro Zanon

Per approfondire: «L’ignorance de l’histoire est le terreau sur lequel progresse la cancel culture» di Franck Ferrand

(Pubblicato su Il Foglio)

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