Una condanna grande come la speranza che uccide

martedì, 5 Ottobre, 2021
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In attesa della pubblicazione delle motivazioni, come si suol dire, riprendiamo questa riflessione, apparsa su Domani (2 ottobre 2021) sulla severità della condanna inflitta a Domenico Lucano, ex-Sindaco di Riace, che è stata oggetto di numerosissime prese di posizione nella stampa dei giorni scorsi (segnaliamo fra le altre quelle di segno opposto di Marco Travaglio   su Il Fatto Quotidiano (vedilo qui) e di Francesco Merlo su Repubblica  (qui). Lo stesso Lucano ha inviato a tutti una commovente lettera (qui). E’ soprattutto da vedere la raccolta di testimonianze citata nel testo: “Non rimarrò in silenzio” https://www.youtube.com/watch?v=w4tYg24PoMc

Lunare, spropositata, sproporzionata, esorbitante: sono solo alcune delle più frequenti espressioni che troviamo in rete – e non vengono solo da Giuliano Pisapia e dalle moltissime personalità del mondo dell’informazione e dello spettacolo che si sono già espressi sulla condanna a più di 13 anni di galera per Domenico Lucano, l’ex Sindaco di Riace. Parliamo dei testimoni e dei compagni di quell’impresa che il mondo intero conosce come il Modello di Riace: un modello non di accoglienza, ma di integrazione e reciprocità, che di due deserti – quello di provenienza e quello di approdo – avevano fatto un giardino.  Un’impresa che nel giro di vent’anni, dal primo sbarco di Curdi sulla costa nel ’98, aveva acceso quest’altra nostra Africa disperata, la Locride devastata dalla ‘ndrangheta, dall’emigrazione e dall’assenza di servizi e istituzioni funzionanti, la luce di una speranza enorme. Con l’aiuto di registi come Wim Wenders (che a Riace ha dedicato il film Il volo), della rivista americana Fortune che ha incluso Lucano fra le cinquanta più influenti persone al mondo precisamente perché il suo modello  “ha messo contro Lucano la mafia e lo Stato, ma è stato studiato come possibile soluzione alla crisi dei rifugiati in Europa”. Con l’aiuto delle platee che in tutt’Europa – Italia esclusa – hanno applaudito Un paese di Calabria, il documentario diretto da Shu Aiello e Catherine Catella girato nel 2016, rifiutato dalle sale italiane dopo gli arresti domiciliari inflitti a Lucano nel 2018. Come cancellata dalla programmazione Rai è stata Tutto il mondo è paese, la fiction che racconta questa grande avventura di cooperazione – ripeto, non di semplice accoglienza – in cui una comunità multietnica ha riportato in vita gli antichi mestieri,  riaperto laboratori di ceramica e tessitura, bar, panetterie e persino la scuola elementare, ha avviato un programma di raccolta differenziata con due asinelli che si inerpicano nei vicoli del centro. E allora ascoltateli, questi uomini e donne di buona volontà, che con Lucano hanno condiviso l’utopia e l’impegno quotidiano per realizzarlo: parlano dal filmato di Tommaso D’Elia, Daniela Preziosi, Simone Pallicca, Ugo Adilardisi, Non rimarrò in silenzio, messo in rete da Arcoiris TV Channel. Vi fanno toccare con mente e cuore l’idea di Lucano e di tutti loro, fiorita nel culto di chi alla lotta contro la ‘ndrangheta infiltrata nelle istituzioni aveva sacrificato la vita, come Peppe Valarioti, ucciso a trent’anni nel 1980. Ascoltateli tutti, a partire dalla straordinaria figura dell’arcivescovo Giancarlo Maria Bregantini, già vescovo della Locride, sceso dal Trentino in terra di Calabria: ascoltate la sua dolcissima invettiva contro “chi ha ucciso la vita nel grembo della terra”. Ecco: non c’è dubbio che l’enormità di questa condanna è semplicemente proporzionale all’enormità della speranza che uccide. In tutti noi che vediamo l’insufficienza – questa sì, criminogena –  dell’accoglienza senza integrazione. E senza riflessione su questo modello di reciprocità che fa rivivere le terre desolate e spopolate d’Italia, e annaffia i deserti attingendo alla fonte di ogni vita che valga la pena d’esser vissuta: la dignità, il valore riconosciuto alle proprie mani, alla propria lingua, alla propria gioia. E se questa condanna non sarà ribaltata dalla forza del vero, facciamone ciò che Socrate e don Milani, obiettore pacifista, volevano si facesse della pena accolta anche se ingiusta: una leva per leggi migliori.

 

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