Liberalismo e comunitarismo nella città post-secolare. Come nascono i valori di Hans Joas (Quodlibet)

martedì, 18 Gennaio, 2022
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Mentre salgono i numeri dei contagi oltre ogni limite pronosticato, dopo due anni di pandemia, chiunque abbia cara la razionalità socratica, illuminata quanto più possibile dalla conoscenza e mitigata dalla ragionevolezza richiesta dalla vita comune, non può che uscirne prostrato. E chi avesse avuto occasione di vedere il film Don’t look up – cinematograficamente forse non così eccelso – non può non cogliere quanto sottile sia ormai diventato il limite tra la realtà e la parodia. (qui un utile resoconto). Di fronte a tanto disordine e dolore precoce di questo nostro tempo, così surreale da apparire (a dispetto dei lutti, purtroppo) quasi più comico che tragico, sprofondare nelle pagine di Die Entstehung der Werte di Hans Joas ha un effetto di utile ristoro, per il quale va reso merito alla casa editrice Quodlibet e a Matteo Santarelli, che del volume ha curato la traduzione italiana con il titolo Come nascono i valori. In effetti, anche nel teatro di questa pandemia non stiamo assistendo – come molti pure sostengono – a uno scontro tra modernità e antimodernità, illuminismo e oscurantismo, scienza e antiscienza, responsabilità ed egoistico arbitrio, bensì all’accelerazione terminale di un lungo processo di scomposizione sociale e degenerazione del discorso pubblico che, in Italia, si è risolto in uno scontro di valori su vari livelli, il più profondo dei quali si produce tra un certo modello privilegiato e dominante di benessere economico, con il suo standard di vita “accettabile”, e la tutela universalistica della salute, incluso il diritto individuale di disporne. Gli altri clash non sono che epifenomeni eccitati e strumentalizzati dalla politica e dai media, dove a essere entrata in crisi è l’idea stessa di democrazia per come nel Secondo dopoguerra l’abbiamo conosciuta o creduta di conoscere.

Non volendo, però, trascinare in un dibattito tanto scomposto, grossolano e dogmatico un testo così pacato, analitico e prudente nelle conclusioni, ci terremo lontani dall’entrare nella polemica che attualmente divide mediaticamente i reali o presunti pro vax/pro green pass dai reali o presunti no vax/no green pass, benché riteniamo che la lettura del volume sia utile anche per capire la distanza che oggi ci separa da una comprensione adeguata e profonda del frangente storico attuale.

Per una ricostruzione del ruolo di Die Entstehung der Werte nell’evoluzione del pensiero dell’Autore e, più in generale, nella ripresa – oggi quasi una moda – del tema dei valori nella riflessione contemporanea e nel proscenio etico, politico, economico corrente, rimandiamo all’accurata ed estesa introduzione dello stesso Santarelli. Basti qui, a tal fine, sottolineare insieme al curatore la rimarchevole capacità di sintesi storica e teorica di Joas nell’intrecciare più tradizioni di pensiero sul tema: da Nietzsche a Habermas, passando per James, Durkheim, Scheler, Dewey, Taylor, Rorty, con un’enfasi particolare, tuttavia, sul pragmatismo americano, per l’Autore sottovalutato e non di rado poco conosciuto da molti filosofi europei. Il risultato è problematico, ma tutt’altro che infruttuoso e viene da Santarelli ben riassunto evidenziando anzitutto come Joas in quest’opera non fornisca semplicemente una storia della nascita del valori, ma una vera e propria teoria degli stessi, in base alla quale proprio la loro vaghezza di principio sarebbe garanzia della loro possibile declinazione storica: particolare senza necessariamente divenire “particolaristica”, universalizzabile senza per forza risultare meramente postulata e in definitiva astratta e dogmatica.

Joas, in effetti, offre una prova, se ce n’era bisogno, di come qualunque tentativo di rispondere alla domanda circa che cosa siano e quali i valori cui impegniamo il nostro agire e come e da dove sorgano non possa né interamente ridurli alla loro contingenza storica né fino in fondo emanciparli dalla medesima. Il metodo che sceglie, coerentemente, passa così attraverso una ricostruzione teoricamente orientata della storia del problema così come in epoca moderna per la prima volta è stato posto, ossia a partire dallo scritto d’occasione di Friedrich Nietzsche Genealogia della morale (1887). A costo di deludere le aspettative, sin dal primo capitolo viene in chiaro come lo scopo del libro non consista nella propagazione o nel rafforzamento di determinati valori in luogo di altri, bensì nel riuscire a «dirigere lo sguardo verso i contesti d’azione e i tipi di esperienza in cui il sentimento soggettivo che qualcosa ha valore trova la sua origine» al fine di descriverli. Viene cioè semplicemente assunto come dato fenomenologico da interrogare «che tutti noi conosciamo il sentimento per cui qualcosa va valutato come buono o cattivo con piena intensità affettiva e in modo evidente» (p. 64). L’esperienza del “non poter fare altrimenti”, in altre parole, non soltanto è assunta come un dato soggettivamente vissuto in quanto oggettivamente obbligante, ma se ne evidenzia la natura affettiva, contro ogni pretesa di ridurre i nostri impegni al valore a inferenze o argomentazioni puramente logico-linguistiche. Nello stesso contesto, si respingono anche una serie di possibili obiezioni alla posizione stessa del problema filosofico dei valori: da quella materialista, di derivazione marxista, a quella funzionalista, riconducibile a Niklas Luhmann. Ma anche altre forme di scetticismo sono respinte: il primo di derivazione liberale, il secondo postmodernista, diversamente preoccupati che ogni impegno al valore nasconda una pretesa coercitiva. Al primo si rammenta di dover ammettere un valore, se non altro, alle procedure deliberative che rivendica come avalutative, cadendo in contraddizione. Al secondo, milieu in cui ancora oggi pare naufragare ogni tentativo di ricognizione storica del presente allo scopo di orientarci nel nostro futuro, si obietta come qualunque metanarrazione sulla fine delle metanarrazioni – teologiche, ontologiche, evoluzionistiche ecc – debba riconoscere almeno che «non abbiamo nessuna certezza del fatto che siamo entrati in un’epoca di piena incertezza, e che non vi saranno più tracce di nuova certezza» (p. 61). La sentenza di Nietzsche sulla morte di Dio, insomma, non può essere presa per una verità positiva senza cadere in contraddizione. Con buona pace di Lyotard e Bauman, quindi, anche la tesi post-moderna secondo cui saremmo definitivamente entrati in una “età dell’incertezza” in cui ogni pretesa oggettiva sui valori perderebbe di senso è a sua volta destinata a contraddire se stessa.

Una volta sgombrato il campo delle obiezioni di principio alla posizione del problema, Joas espone i caratteri generali della sua teoria in merito, che in prima istanza potremmo definire antiutilitarista e antinormativista. Utilitarismo e normativismo, infatti, rappresentano le due principali risposte – negativa la prima, positiva la seconda – al problema, eredi entrambe del “breve sogno della prosperità perenne” caratteristico della “fede nel progresso” del Secondo dopoguerra: «Da cento anni, e dunque dalla nascita della sociologia accademica, all’interno di questa disciplina si è creata una spaccatura permanente: da un lato, quelli che, principalmente sotto l’influenza delle discipline economiche, concepiscono l’agire umano come perseguimento del proprio utile, o quantomeno di preferenze stabili e ampiamente indipendenti dal contesto; dall’altro, coloro i quali sottolineano il carattere irriducibile della dimensione normativa dell’agire umano» (p. 68). Entrambe queste prospettive, tuttavia, non sono in grado di dare conto della genesi né dei valori né delle norme. Per l’utilitarismo, infatti, quelli che chiamiamo valori, sono preferenze individuali eventualmente tradotte in norme collettive obbliganti di carattere consuetudinario o giuridico, frutto di una selezione evolutiva d’ordine storico, biologico, antropologico ecc sempre in base a criteri di utilità. A questa posizione, il normativismo obietta evidenziando come un valore non sia riducibile a una preferenza, individuale o collettiva, tanto di breve quanto di lungo periodo. Anche una preferenza, infatti, è posta sulla base di valori, da intendersi come preferenze sentite o considerate giustificate e sulla cui base non valutiamo soltanto il nostro e altrui agire, ma noi stessi e gli altri. Se i normativisti, però, hanno contribuito a sciogliere l’equivoco che faceva coincidere desideri, preferenze, valori, norme sotto la generica categoria dell’utilità dell’individuo o del maggior numero, neppure loro, secondo Joas, sono riusciti a rispondere alla domanda relativa alla loro genesi, salvo rimandare genericamente a processi condivisi di “istituzionalizzazione” in grado di essere interiorizzati al punto di poter essere “impiegati” in modo opportuno nei diversi contesti d’azione. In questo modo, però, non si tiene conto delle tensioni fondamentali che si possono produrre tra i vari livelli, dando per scontato che tra di loro esista una coerente gerarchia universalizzabile. Va invece tenuto presente, sottolinea Joas, che «La filosofia del valore emerse esattamente nel punto in cui la fiducia verso le varianti storicizzanti dell’identità tra vero e buono si dissolveva (…) Il concetto di valore ha preso il posto che nella tradizione filosofica era occupato da quello di “bene”». Ma comporta ora un riferimento essenziale al soggetto che valuta. Così: «Al posto di una metafisica di vero e buono, nella filosofia del valore entra in scena un dualismo tra “fatticità” e “validità”, tra un regno di stati di cose verificabili e un modo di essere contrapposto di cui fanno parte valori e valutazioni» (p. 78-79). È la svolta verso la soggettività, in cui i valori validi, malgrado lo sforzo contrario di filosofi neokantiani come Windelband e Rickert, non appartengono a un regno ideale da scoprire, ma nascono dall’azione e dall’esperienza storica. Così, una ricerca filosofica attorno alla loro genesi deve essenzialmente rivolgersi a quegli orientamenti di pensiero «disposti a pensare insieme il carattere soggettivo e contingente della valutazione», senza ridurre la questione a una partecipazione postulata dei soggetti contingenti a un mondo di validità ideale precostituito, bensì interrogandosi sul modo attraverso cui «questa validità ideale possa emergere da una soggettività contingente» (p. 80).

Segnata la rotta, Joas passa in rassegna, uno per uno, gli autori dal suo punto di vista utili a illuminare il problema, in una disamina che qui non possiamo ricapitolare in dettaglio. Se il punto di partenza è Nietzsche, di cui si mostra la dipendenza per contrasto dal rigido normativismo dell’etica di Kant, il punto di arrivo è la disputa che ha visto in modo particolare Jürgen Habermas e Richard Rorty confrontarsi sulle condizioni di possibilità minime di una condivisione di valori, che almeno a partire dall’ingresso nel XXI secolo ha interessato le nostre società secolarizzate mettendole di fronte alla loro vera o supposta crisi. Joas riconosce a Scheler prima e a Taylor poi di avere ben argomentato in favore della natura reale dei valori, come correlati oggettivi di esperienze dotati di una loro articolazione orientativa dell’azione. Al medesimo tempo, però, rimprovera loro di non sfuggire a un nuovo essenzialismo, che le filosofie della religione di James e Dewey consentirebbe di scongiurare grazie al loro pur diverso ancoraggio pragmatista al principio del legame tra concetto e azione. Secondo Joas, infatti, «dopo la perdita di una fondazione metafisica del bene anche ciò che è pieno di valore, ciò che è ammirevole o ciò che è degno di amore ci è accessibile solo dalla prospettiva delle nostre azioni». Questo non significa, tuttavia, come Taylor avrebbe sostenuto in opposizione alla filosofia morale del suo tempo, avere ridotto il bene ai desideri o agli obblighi, trascurando così il problema di che cosa sia apprezzabile in sé o di che cosa dovremmo ammirare o amare. Al contrario, proprio tale considerazione apre alla domanda su quali siano le azioni in cui le persone esperiscono qualcosa come un bene “in se stesso e per loro” e dunque anche all’analisi delle esperienze religiose intese nelle loro concretezza storica. E questo perché, come già emerse in Scheler e in Taylor, l’esperienza del valore è per essenza connessa alla formazione e stabilizzazione della nostra identità personale, individuale e collettiva.

Rorty, secondo Joas, porta Nietzsche all’interno del campo liberale, individuando nell’evitamento della crudeltà, che va dall’umiliazione morale sino alla tortura psicologica e fisica, il requisito minimo indispensabile per garantire un ethos collettivamente vincolante, capace di dare forma alla vita pubblica e alle nostre pratiche di solidarietà, reciproca comprensione e autolimitazione. Ma così al soggetto non resta che uno spazio di autocreazione del tutto privato, insondabile e insindacabile, dal quale l’Altro è in linea di principio escluso. Così, il massimo che possiamo fare per congiungere le polarità che romanticismo politico e marxismo tentarono di saldare – libertà ed eguaglianza, autocreazione e giustizia, fioritura individuale e solidarietà umana – consiste nel vedere il fine di una società libera e giusta nel fatto di lasciare che i suoi cittadini siano privatistici “irrazionalisti” ed estetizzanti quanto vogliono fin tanto che lo fanno per conto loro, senza danneggiare gli altri e senza sfruttare le risorse necessarie ai meno privilegiati. Il nostro senso di giustizia, tuttavia, difficilmente si rispecchierà in questo programma, per così dire, minimo. Il quale lascia peraltro aperti ampi spazi di conflittualità difficilmente negoziabile e dirimibile tra parti estranee le cui divergenze soltanto l’imperio della forza può incaricarsi di risolvere attraverso la coercizione della legge positiva.

Il volume si chiude confrontandosi con l’etica del discorso di Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas, il cui merito, secondo Joas, consiste nell’avere avuto quell’«intuizione pragmatista» in base alla quale nella costituzione del giudizio morale «non tutti possano mettersi nei panni di qualunque altro soltanto in base alla propria fantasia»: un progresso decisivo rispetto all’universalismo astratto di Kant. Come ebbe a scrivere Habermas, citato dall’Autore: «Quando gli interessati non possono più fare affidamento sulla precomprensione trascendentale di condizioni di vita e situazioni d’interesse più o meno omogenee, allora il punto di vista morale può solo realizzarsi in quelle condizioni di comunicazione che mettano in grado chiunque (…) di verificare l’accettabilità di una norma innalzata (in via d’ipotesi) a prassi universale. L’imperativo categorico riceve così un’interpretazione discorsiva (in base alla quale) possono pretendere validità solo le norme che potrebbero incontrare l’approvazione di tutti gli interessati in quanto partecipanti in un discorso pratico» (p. 275). D’altronde, aveva evidenziato Joas soltanto poche pagine prima, discutendo il presunto primato del bene sul giusto, l’etica pragmatista si contrappone a ogni relativismo morale di stampo culturalista, ponendo l’accento semmai sul «bisogno universale di una regolazione normativa della cooperazione umana e della cura, così come la possibilità di concepire la soluzione comunicativa di questi problemi di cooperazione come ideale sostanziale». Ed è in ragione di ciò che: «Dalla comprensione pragmatista dell’azione e della costruzione dell’etica a partire dalla comprensione degli attori sociali, deriva che nella situazione dell’azione il carattere di limitazione del dovere deve manifestarsi, ma che può manifestarsi solo come un punto di vista accanto agli orientamenti verso il bene. (…) Nella situazione dell’azione non si dà nessun primato del bene o del giusto, e non domina nessuna relazione di sovra o subordinamento. Piuttosto si dà una complementarietà (…) L’enfasi sul carattere situato e creativo dell’azione non comporta nessuno scetticismo verso l’idea di un’universalità del giusto. Ma per i pragmatisti da ciò non deriva che all’interno della situazione d’azione si debba dare la precedenza all’universalizzabilità di un orientamento rispetto a ogni altra considerazione» (p. 271-2). Tuttavia, nel prosieguo del suo pensiero, la fiducia di Habermas nei confronti della ragione argomentativa si fa via via più debole, fino a ricavarne la necessità di integrare la debole forza motivazionale della morale con la forza coercitiva del diritto.

È a questo punto che la differenza tra Habermas e Dewey diventa per Joas più istruttiva. Per il pragmatista americano, infatti, è la conversazione, più che non l’argomentazione, «il potenziale di un’esperienza di auto-trascendenza, dalla quale possono risultare un legame affettivo verso il partner della conversazione e la possibilità che la discussione diventi un valore» (p. 283). Per Habermas, invece, essendo il discorso ridotto è una procedura formale di ordine razionalmente argomentativo, non può in linea di principio divenire affettivo. Il problema, secondo Joas, nasce dalla confusione che il filosofo tedesco compie attorno alla distinzione tra norme e valori. Le norme obbligano all’azione giusta, i valori la orientano telelogicamente verso ciò che ritiene essere bene, secondo quanto già si trova in Durkheim. Ma l’etica, sottolinea l’Autore, non designa affatto ciò che è buono “per me” nel senso della mia personale e irrelata felicità, piuttosto ciò che è buono “per me” nel senso della mia sincera comprensione del bene, del mio «essere preso dai valori». Nel primo caso, prosegue Joas, «la scala di misura del mio giudizio sono io, la mia felicità e il mio benessere; nell’altro caso io sono solo consapevole di essere colui che giudica, ma la scala di misura è esterna rispetto a me». Habermas, invece, pare ritenere che le etiche abbiano avuto in vista la felicità nel primo senso. Ma così fa torto «a tutte le tradizioni etiche universalistiche (come quella cristiana); e alla riserva di ideali di giustizia e concezioni valoriali rispetto ai rapporti con gli stranieri presente in ogni ethos culturale». Ed è falso, ancora, che le etiche non mirino alla formazione di rapporti sociali e che le etiche universalistiche non motivino a rompere con prospettive egocentriche. Non si deve confondere la distinzione tra obbligatorio e teleologico né con quella tra universalistico e particolaristico né con quella tra altruistico ed egoistico: tra questi differenti livelli esistono geometrie e bilanciamenti variabili in relazione creativa con il contesto storico contingente in cui si sviluppa l’azione. Perché «Un sistema di valori universalistico è logicamente possibile ed empiricamente reale (e) nessuna delle tre distinzioni coincide con la differenza tra un’etica centrata sull’argomentazione e la giustificazione, e un’etica centrata sulla prospettiva dell’agente. (…) In un’etica dal punto di vista dell’agente, devono darsi valori e norme; come già detto, il potenziale di universalizzazione del normativo interagisce con i valori contingenti, e produce differenti modi in cui sistemi di valori capaci di motivare si avvicinano all’universalità potenziale delle norme» (p. 285).

A questo punto Joas è in grado di trarre alcune conclusioni di carattere più generale, che riguardano il nostro presente. Dato che, per quanto detto, la distinzione tra piano restrittivo-obbligatorio e piano attrattivo-motivazionale non si annulla mai, non è vero che la validità universale di valori o beni superiori la annullerebbe mettendo in pericolo la coesione sociale. Di conseguenza, la pretesa di validità universale dei valori può essere formulata anche in condizioni post-metafisiche. Non esiste, dunque, solamente la morale universalistica, o se troppo debole, il diritto moderno, a garanzia della possibilità di integrazione di una società moderna, la cui legittimità emergerebbe solamente dai diritti dei cittadini alla libertà. Diversamente, per Joas: «Le forze della solidarietà sociale possono rigenerarsi anche nelle forme delle “pratiche comunicative dell’autodeterminazione”» nate da impegni tradizionali verso valori e comunità particolari.

In merito alla controversia tra liberalismo e comunitarismo, infine, Joas propone di sciogliere la loro irriducibile polarizzazione per integrarne le prospettive. Liberali e comunitaristi, in realtà, condividono la stessa problematica: «qual è la misura di rispetto che l’individuo deve tributare a un ordine sociale, dal quale si aspetta una garanzia dei suoi diritti individuali» (p. 289). Nessun supposto liberale “comandamento al silenzio” sulle questioni di valore, dunque, è legittimo. Aprendo lo spazio per la discussione pubblica attorno ai valori, uno spazio, tuttavia, che «non va ridotto all’argomentazione morale o legale, né deve deteriorarsi nella forma del conflitto e nella lotta distributiva tra identità fisse», senza che questo riduca la giustizia, ancora una volta, alla «mera reciprocità utilitaristica». La minaccia persistente, come constatiamo, della società moderna.

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Un commento a Liberalismo e comunitarismo nella città post-secolare. Come nascono i valori di Hans Joas (Quodlibet)

  1. giovedì, 20 Gennaio, 2022 at 14:46

    Grazie caro Stefano di questa articolata e accurata recensione, il meglio a cui il nostro Lab possa servire! Ecco qui il mio commento, un po’ lungo.

    Hans Joas ha scritto ottime cose, ad esempio sul fondamento esperienziale dei diritti umani, dove s’è ricordato del suo debito verso Scheler (per quanto riguarda la componente affettiva dell’esperienza dei valori). Quanto alla tesi del libro che recensisci, quando l’ho letto nella versione inglese (Polity, 2000), avevo notato una cosa: dal punto di vista storico è molto dubbio che fatti e valori siano stati distinti solo nella modernità (uno dei più celebri passi di Platone nella Repubblica afferma che il bene è “oltre l’essere”). Ma questo sarebbe secondario. Invece è veramente contestabile, a mio avviso, è l’uso teorico che Joas ne fa quando scrive (cito il testo inglese, p. 21):

    “However, whereas the ‘good’ could, according to this tradition, be accorded a status ascertainable either by rational contemplation of the cosmos or through divine revelation, and thus had a ‘being’ – even a higher being than other existents – there is attached to the concept of ‘value’ an ineradicable reference to a valuing subject”.

    La relazione fra valore e valutare non è affatto una ragione sufficiente per confinare le qualità di valore nell’ambito della soggettività (o della mentalità) delle persone (delle società). Non più di quanto la relazione fra vedere e colori sia una ragione sufficiente per confinare nella “mente” i colori con tutte le altre “qualità secondarie”. E’ vero però che il destino delle qualità secondarie e terziarie (dei colori e dei valori) fu spesso ritenuto lo stesso nella modernità – vale a dire, sostanzialmente, fu predominante una posizione non-cognitivistica (l’esperienza dei valori non è una fonte di evidenza, fallibile ma correggibile, per il giudizio di valore).
    Ma dopo aver liquidato senza uno straccio d’argomento fiumi di fenomenologia dell’esperienza di valore (Husserl, Scheler, von Hildebrand, Stein, Kolnai, Spiegelberg) che contraddice radicalmente questa tesi, e, scendendo dalla metaetica direttamente all’etica normativa, le sue modulazioni utilitaristica (fino agli esiti comunitaristi) e normativistica o costruttivistica (Rawls e i liberali), ecco la conclusione di Joas, che tu riassumi e citi:

    “È la svolta verso la soggettività, in cui i valori validi, malgrado lo sforzo contrario di filosofi neokantiani come Windelband e Rickert, non appartengono a un regno ideale da scoprire, ma nascono dall’azione e dall’esperienza storica. Così, una ricerca filosofica attorno alla loro genesi deve essenzialmente rivolgersi a quegli orientamenti di pensiero «disposti a pensare insieme il carattere soggettivo e contingente della valutazione», senza ridurre la questione a una partecipazione postulata dei soggetti contingenti a un mondo di validità ideale precostituito, bensì interrogandosi sul modo attraverso cui «questa validità ideale possa emergere da una soggettività contingente» (p. 80).”

    Ecco: questa frase estremamente ambigua si presta a due letture opposte. La prima sottolinea che “una validità ideale” EMERGE “da una soggettività contingente” (in effetti, da un suo purché criticamente vigile esperire il mondo e se stessa: qui il ruolo del “tafano” Socrate, il nostro) e si chiede COME (ho provato a dare una risposta teorica comprensiva, “il dono dei vincoli”). La seconda invece, opponendo il fare allo scoprire, dunque il volere e le sue vicende di potere e impotenza alla cognizione e alla sua interna disciplina critica, ci riconduce in sostanza a un relativismo storicista, per interposta persona del pragmatista. E così con l’aiuto di James possiamo salvare tutto quello che interessa (forse per nostalgia della giovinezza?) a molti: Hegel, Marx… e perfino Heidegger.
    A me piacerebbe che tu disambiguassi questo passo chiarendo il modo in cui lo leggi tu, che mi sembra effettivamente il secondo: ma potrei sbagliare. Ecco – se così fosse, inviterei Joas e te a considerare che James è anche l’autore di un saggio, La volontà di credere (1896), che risponde con un fermo volontarismo pragmatico al fermissimo evidenzialismo di Clifford (The Ethics of Belief, 1877). Sulla barca di James appunto si imbarcheranno con un sospiro di sollievo, in effetti, molti dei più popolari pensatori del secolo scorso, come Richard Rorty, Stanley Cavell, Charles Taylor o Gianni Vattimo: tutti quelli per cui era un sollievo apprendere che la giustificazione delle credenze in base a evidenza sofferta fraintenderebbe la natura fondamentale delle credenze, le quali non sarebbero che impegni d’azione che noi prendiamo, in nome dei nostri desideri, interessi e valori vitali. E siccome dietro c’era l’idea che la stessa ragione illuministica fosse (o fosse diventata?) cieca ai valori delle democrazie che questa stessa ragione aveva promosso, perché quei valori erano la falsa coscienza dei suoi veri interessi pratici (capitalistici!) perfino Jürgen Habermas si trovò ad approvare l’idea del Cardinale Ratzinger che la democrazia liberale avesse bisogno di risorse normative come quelle offerte dal cristianesimo, a prescindere dalla circostanza che si fosse o no credenti. Credere per fare.
    Ecco qui: cent’anni di fenomenologia, ovvero di radicale contestazione dello scetticismo (anche, anzi soprattutto, assiologico e normativo) – non con postulati dogmatici, ma con l’immersione sempre rinnovata e terribilmente dolorosa nell’esperienza delle cose stesse (mettendo fra parentesi le pulsioni pratiche e teoriche di ogni genere) e nella lenta, faticosa discriminazione dei contenuti assiologici – per tornare tranquillamente a bomba: la ragion pratica non è che il portato della storia, e delle forze più o meno forti che stanno dietro ai loro progetti d’azione.
    Joas è uno storico e un sociologo e si occupa di fatti. La sua conclusione è in qualche modo nel suo DNA professionale. Ma noi non ne abbiamo uno diverso? Non ci occupiamo anche di ciò che dovrebbe essere?
    “Ragione”, infatti, è un concetto normativo. Come nel caso delle idee e in quello dei valori, dispiaccia o no a Nietzsche e a Joas, il contesto della genesi e quello della giustificazione andrebbero tenuti ben distinti. O no?

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