Troppi intellettuali degradano la politica alla logica amico-nemico

sabato, 2 Aprile, 2022
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Riprendo qui – come seguito della discussione aperta nel post precedente – un pezzo uscito con questo titolo  su Domani il 30 marzo 2022 (originariamente o da me intitolato “Le parole del capo”).

Mai come in questi giorni risuonano come pura verità, nella memoria di chiunque le abbia una volta incontrate, le parole iniziali del Preambolo alla Costituzione dell’UNESCO: “Poiché le guerre cominciano nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che le difese della pace debbono essere costruite”.

Risuonano nell’orecchio gli epiteti che i “capi” dei mondi sconvolti che si stanno urtando reciprocamente riservano all’altra parte: anzitutto Putin, al quale fa lugubremente eco, in una nuvola d’incenso, il patriarca omofobo che consacra la guerra. Ma per le nostre orecchie europee non è forse più sconvolgente ancora il linguaggio pubblico di Biden? Sconvolgente più per la semplificazione quasi infantile dei termini (come quando si usava parlare di “Stati-canaglia”) che per la loro violenza. Qualcuno ha paragonato le parole di Biden in Polonia a quelle di Kennedy, “Ich bin ein Berliner”, o addirittura a quelle di Churchill sotto le bombe a Londra, “Combatteremo nei cieli e sulla terra, nelle strade e sui campi, ma non ci arrenderemo mai” (Paolo Guzzanti, Il giornale, 27 marzo). Ma che c’entra? Non un’ombra di disprezzo traluce da queste parole. Invece gli epiteti (“criminale”, “assassino”, “macellaio”) affibbiati dal Presidente a Putin, anche quando corrispondono al vero, appaiono, nella loro dimensione psicologica, morale e penale, penosamente inadeguati alla misura della tragedia pubblica, per l’umanità e per due popoli in particolare, che il capo di stato russo rappresenta. E perché anche quella che sarebbe giusta indignazione di fronte all’aggressore viene svilita da questo linguaggio esclamativo ma cheap. Incongruo per chi rappresenta la dignità suprema di una Repubblica, oltre ad essere – recita la Costituzione – Comandante in capo dell’Esercito e della Marina degli Stati Uniti.

Quelle parole sono una specie di rivelazione, però. Rivelano la sostanza del criterio che un pensiero feroce e oscurantista ha proposto per definire la politica: l’opposizione amico-nemico. Ad onta di tutta la sua erudizione teologica e giuridica, Carl Schmitt, l’autore di questa “definizione”, riduce la politica a qualcosa di arcaico e tribale, più antico della politica. “Il nemico è semplicemente l’altro, lo straniero, e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che … i conflitti non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’”. (Le categorie del politico). Vengono i brividi, no?

Agli analisti politici spetta spiegare perché il presidente USA intenda sabotare con questa escalation verbale la volontà pur sostenuta a parole di fermare la guerra prima della catastrofe. Al semplice umanista, che può aspirare soltanto all’esattezza del sentire e del senso delle parole, non resta che ascoltare il mistero primitivo. In cui ogni differenza s’azzera, e i molti diventano un solo corpo che regge un solo capo. C’è questo “esistenzialmente ed essenzialmente altro” cui opporsi – e allora per definizione (prima che per insipienza strategica) non c’è mediazione che tenga, non c’è “norma prestabilita”.  Così cominciano le guerre, “nel cuore degli uomini”. Eccola, la distinzione schmittiana fra amico e nemico come essenza della politica, che si rivela nella sua sospensione, la guerra, proprio come la sovranità si rivelerebbe nello stato di eccezione. Dunque ha ragione Carl Schmitt?

Ha torto marcio, teorico ed etico. Non perché questo mistero primitivo non ci sia. Ma perché questo lui chiama politica, in questo vede la sua essenza. Se avesse ragione, la civiltà non sarebbe progredita oltre l’età del bronzo. Per questo il suo è un pensiero feroce e oscurantista, con buona pace di quella che Norberto Bobbio chiamava “una sinistra senza bussola”, che con lui amoreggia già da mezzo secolo. E più ancora, con buona pace dei teorici dello scontro di civiltà che ne sono eredi, per i quali soltanto questa colla di sangue, questa religio che ci stringe insieme contro l’Altro dà alla politica il suo compito: e non il vincolo normativo cui consentiamo perché le molte identità convivano. Hanno molti adepti anche da noi, gli Huntington e i Brzezinski, contro la mentalità per la quale “la dimensione del conflitto, dei meccanismi e dei sentimenti fatali che lo determinano…appaiono tutte entità dal tratto primitivo da esorcizzare” (Galli della Loggia, Corriere della sera, 20 marzo). Contro chi nega che “i principi liberali devono venire a patti con le regole della politica di potenza” (Angelo Panebianco, Corriere della sera, 21 marzo). Ma questa mentalità è l’illuminismo. E’ l’aspirazione di Kant, non solo quella del papa. Ed è l’obbligo, il compito della politica. La sua ragion d’essere.

 

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