In morte di Michail Gorbačëv: la catastrofe priva di catarsi dell’URSS e la grande rimozione occidentale

mercoledì, 31 Agosto, 2022
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Nella speranza di contribuire a evitare la pelosa retorica e l’urticante banalità che, temo, caratterizzerà la ripresa mediatica della notizia della morte di Michail Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (1985-1991), riporto questo interessante e corposo documento, di cui ringrazio Aldo Cannas per averlo pubblicato e Luisa Vardiero per averlo condiviso su Facebook.

Nina Aleksandrovna Andreeva (Leningrado, 12 ottobre 1938 – San Pietroburgo, 24 luglio 2020) è stata una chimica e politica sovietica, dal 1991 russa. Scrisse nel 1988 un saggio intitolato Non posso sacrificare i princìpi, nel quale difendeva alcuni aspetti del sistema sovietico, criticando Michail Gorbačëv. Nella replica pubblicata sul quotidiano ufficiale del partito Pravda, il saggio venne definito manifesto delle forze anti-perestrojka.

La sua letture si presta a considerazioni diverse, anche opposte, ma è importante discutere le questioni storiche partendo da documenti di qualità, soprattutto in questo periodo così ideologicamente “immemore” e “ottuso”.

Ci restituisce infatti una vitalità e fecondità di prospettive, seppure in contrasto tra loro, presenti in quel frangente storico che fu cruciale non solo per l’Unione Sovietica per comprendere anche quello che oggi, come belligeranti, ci unisce e ci divide da quel vastissimo, variegato e complesso mondo oggi propagandisticamente semplificato su entrambi i fronti di guerra con l’uso celebrativo o di contro sprezzante dell’aggettivo “russo”.

Il testo è inoltre esemplare per rispondere a chi considera plausibile ritenere la lingua e la cultura di Nikolaj Vasil’evič Gogol, Pëtr Il’ič Čajkovskij, Vladimir Vladimirovič Majakovskij, Pavel Aleksandrovič Florenskij non “abbastanza” europea”, e che tace o peggio sulla cancel strategy che in Ucraina, oltre che dei legittimi critici del governo, fa strage di memoria, libri, musica, storia.

La storia non si fa con i se e con i ma, e diversi amici in queste ore hanno espresso la convinzione che se Gorbačëv avesse avuto successo, oggi vivremmo in un mondo migliore. Lo penso anche io, sotto molteplici punti di vista. Va tenuto a ogni modo presente – e di conseguenza storicamente compreso – che non da oggi egli è associato nella memoria della maggior parte dei russi alla immane “catastrofe” del proprio Paese, tanto da essere da molti letteralmente odiato e disprezzato.

Come si dovrebbe sapere, il progetto di riforma economica e istituzionale di Gorbačëv fu stroncato da un maldestro colpo di stato a opera di nostalgici, ma anche di collaboratori preoccupati non del tutto a torto per la tenuta dello Stato – non soltanto del Partito – di cui Gorbačëv cercava strenuamente di salvare i non molti aspetti positivi. Il colpo di stato, i cui protagonisti dimostrarono di non avere intenzione di procedere a spargimenti di sangue, finì paradossalmente per offrire il pretesto per il vero colpo di stato, incensato dagli occidentali come “trionfo della libertà e democrazia”, effettuato da un altro dei suoi collaboratori, Boris Eltsin, con l’appoggio dei suoi sponsor occidentali.

Anche per capire qualcosa della storia che stiamo vivendo dobbiamo tornare lì e al decennio che seguì, alla promozione degli oligarchi e ministri ultraliberisti che diede vita al “sistema Eltsin” con il sostegno e il plauso delle liberaldemocrazie occidentali, sistema che dissanguò definitivamente e consapevolmente il Paese tra alcolismo, denatalità, miseria, criminalità, abbandono di minori e spartizione privatistica delle risorse e funzioni dello Stato, perdendo ogni capacità di gestione della società e persino dei suoi confini, salvo avviare, sotto Eltsin, la prima campagna militare interna contro il separatismo ceceno, portata poi alla “vittoria” da Putin.

Il potere di Vladimir Putin discese per investitura da Eltsin e dai suoi oligarchi, che in seguito pagarono duramente la volontà del nuovo governante di ricostruire uno Stato russo efficiente attorno al proprio “sistema” e ai propri oligarchi, in continuità comunque con il predecessore dal punto di vista della missione “occidentalista”.

Dal 2008 (vertice Nato) e ancor più dal 2011 (guerra di Libia) e 2014 (Euromaidan) la missione cambiò di segno.

Ma se non si capisce quel passaggio dell’URSS e quel decennio non si può ricostruire seriamente la figura ed eredità non solo di Gorbačëv, ma anche di Putin, sempre che di eredità ne lasci una alla fine di questa azzardata, spregiudicata e forse disperata aggressione militare mascherata da “operazione speciale” alla maniera in cui l’Occidente dalle guerre balcaniche degli anni 90 in poi gli ha suggerito.

Questo documento credo ci riporti a quanto “rimosso” da noi occidentali, ossia la rovinosa implosione dell’URSS – di cui non siamo stati né gli artefici vittoriosi né i semplici spettatori, come ci piace crederci – e di cui oggi viviamo da vicino le drammatiche conseguenze come mai prima è avvenuto. Una catastrofe priva di catarsi su entrambi i fronti della Guerra Fredda e sulla quale si dovrebbe ritornare a riflettere, perché molti dei nodi teorici e pratici di allora, benché sia passato molto tempo, sono ancora oggi assolutamente bisognosi di essere affrontati.

13 marzo 1988,

Lettera di Nina Aleksandrovna Andreeva al quotidiano Sovetskaja Rossija.

NON POSSIAMO TRANSIGERE SUI PRINCIPI

Ho deciso di scrivere questa lettera dopo lunghe riflessioni. Sono un chimico, insegno all’Istituto tecnologico Lensoviet di Leningrado. Seguo, come molti altri, un gruppo di studenti. Oggi, dopo una stagione di apatia sociale e di pigrizia intellettuale, gli studenti cominciano a caricarsi dell’energia dei cam­biamenti rivoluzionari. Naturalmente, sorgono discussioni sulle vie della perestrojka, sui suoi aspetti economici e ideologici. Non di rado, specialmente nell’ambiente giovanile, la trasparenza, la franchezza, la scomparsa di zone vietate alla critica, la tensione emotiva nella coscienza di massa si manifestano anche nella impostazione di problemi che, in questa o quella misura, sono «suggeriti» dalle emittenti radio occidentali o da quei nostri compatrioti che non sono saldi nelle proprie convinzioni circa la natura del socialismo. Di che cosa non si parla! Del sistema pluripartitico, della libertà di propaganda religiosa, dell’espatrio, del diritto a discutere ampiamente i problemi sessuali sulla stampa, della necessità di decentrare la direzione culturale, dell’abolizione del servizio militare… Tra gli studenti particolarmente frequenti sono le polemiche sul passato del paese.

Naturalmente, noi insegnanti siamo costretti a rispondere ai quesiti più stringenti, il che richiede oltre ad onestà anche conoscenza, convinzione, vasti orizzonti culturali, serie riflessio­ni, giudizi ponderati. Del resto, queste qualità sono necessarie a tutti gli educatori della gioventù e non soltanto agli insegnanti di scienze sociali.

Il parco di Petergof è il luogo preferito delle mie passeggia­te con gli studenti. Camminiamo per i viali coperti di neve, ammiriamo i celebri palazzi, le statue, e discutiamo. Discutiamo! Le giovani anime hanno sete di capire tutte le complessità, di definire le proprie vie del futuro. Osservo i miei accalorati interlocutori. Penso come è importante aiutarli a trovare la verità, a conquistare una giusta comprensione dei problemi della società nella quale vivono e che dovranno ristrutturare. E mi chiedo come formare in loro una giusta visione della nostra storia recente e lontana.
Quali sono le nostre preoccupazioni?

Ecco un semplice esempio: sembrerebbe che sulla Grande guerra patriottica, sull’eroismo dei suoi partecipanti si sia scritto e detto molto. Ma, recentemente, in un convitto studen­tesco del nostro «Tecnologico», ha avuto luogo un incontro col colonnello in congedo V.F. Molozev, Eroe dell’Unione Sovietica. Tra le altre gli fu posta una domanda sulle repressioni politiche nell’esercito. Il veterano rispose che non si era mai imbattuto nelle repressioni e che molti di coloro che insieme a lui avevano iniziato la guerra, facendola fino alla fine, erano divenuti grandi comandanti militari… Alcuni furono delusi dalla risposta. Il tema delle repressioni, divenuto il tema di turno, viene percepito dai giovani in modo ipertrofico, vela la comprensione oggettiva del passato. Esempi del genere non sono isolati.

Naturalmente, fa molto piacere che persino i «tecnici» nutrano un vivo interesse per i problemi teorici e sociologici. Ma sono ormai troppe le cose che io non posso accettare, con le quali non posso concordare. Le disquisizioni sul «terrorismo», sul «servilismo politico del popolo», sulla «miseria di un’esistenza sociale senza slanci», sulla «nostra schiavitù spirituale», sulla «paura generale», sulla «prepotenza dei tangheri che sono al potere»… Spesso la storia del periodo di transizione al sociali­smo nel nostro paese viene tessuta soltanto con questi fili. Perciò non c’è da meravigliarsi del fatto che, ad esempio, in una parte degli studenti si rafforzino le tendenze nichilistiche, si manifestino una confusione di idee, uno spostamento degli ancoraggi politici e talvolta perfino forme di onnivoracità ideologica. Capita spesso di sentir dire che è tempo di chiedere conto delle loro responsabilità ai comunisti, i quali avrebbero «disumanizzato» dopo il 1917 la vita del paese.

Al plenum di febbraio del Cc è stata sottolineata, ancora una volta, la necessità urgente di far sì che «la gioventù assuma una visione classista del mondo, impari a comprendere i legami tra gli interessi generali dell’umanità e gli interessi di classe; impari anche a comprendere il carattere classista dei cambia­menti in atto nel nostro paese». Questa visione della storia e del mondo contemporaneo non ha nulla a che vedere con le barzellette politiche, con i pettegolezzi di infimo ordine, con le fantasie a tinte forti nelle quali oggi, non di rado, ci si imbatte.

Leggo e rileggo gli articoli che hanno fatto clamore. Che cosa, ad esempio, possono dare alla gioventù, al di fuori del disorientamento, i riti espiatori sulla «controrivoluzione in Urss a cavallo degli anni trenta», sulla «colpa» di Stalin per l’ascesa al potere in Germania del fascismo e di Hitler? Oppure il pubblico «conteggio» della percentuale di «stalinisti» nelle diverse generazioni e nei differenti gruppi sociali?

Siamo leningradesi e per questo abbiamo visto recente­mente con particolare interesse il buon documentario su S.M. Kirov. Ma il commento che accompagnava le sequenze in taluni punti, non soltanto divergeva dalla documentazione cinematografica ma le attribuiva una sorta di doppio senso. Per esempio, le sequenze cinematografiche mostravano l’esplosione di entusiasmo, la gioia di vivere, lo slancio spirituale di coloro che costruivano il socialismo, ma il commento parlava di repressioni, di mancanza di informazione…

Probabilmente non solo io sono rimasta colpita da un fatto: gli appelli dei dirigenti del partito volti a indirizzare l’attenzione degli «smascheratori» anche verso le conquiste effettive rag­giunte nelle diverse fasi dell’edificazione socialista, provocano, quasi a comando, nuove e nuove impennate di «smascheramento». Muovendosi su questo terreno – ahimé sterile – le pièces di M. Satrov costituiscono un fenomeno rilevante. Ho avuto modo di assistere il giorno dell’apertura del 26° congresso del partito allo spettacolo «Cavalli azzurri su erba rossa». Ricordo le reazioni eccitate dei giovani all’episodio in cui il segretario di Lenin, con una teiera, tenta di bagnare la testa dello stesso Lenin, scambiata per un modello incompiuto di scultura in creta. Tra l’altro, una parte dei giovani era giunta con striscioni preparati in precedenza; il contenuto si riduceva ad infangare il nostro passato e il nostro presente… Nella «Pace di Brest», per volontà del drammaturgo e del regista, Lenin si inginocchia davanti a Trockij. Una sorta di immagine-simbolo della conce­zione dell’autore, che viene ulteriormente sviluppata nel dram­ma «Oltre… oltre… oltre!»

Naturalmente, un dramma non è un trattato di storia. Ma il fatto è che anche in un’opera d’arte la verità viene garantita solo dalla posizione dell’autore. Specialmente se si tratta di teatro politico.

La posizione del drammaturgo Shatrov è stata analizzata in modo minuzioso e argomentato in recensioni di storici pubbli­cate sulla Pravda e su Sovetskaja Rossija. Voglio esprimere anche la mia opinione. In particolare, non è possibile non concordare col fatto che Satrov si allontana in modo sostanziale dai consueti principi del realismo socialista. Nell’illustrare un periodo decisivo della storia del nostro paese, egli estremizza il fattore soggettivo dello sviluppo sociale, ignora palesemente le leggi oggettive della storia che si manifestano nell’attività delle classi e delle masse. Il ruolo delle masse proletarie, del partito dei bolscevichi, è ridotto qui a uno «sfondo» sul quale si dispiegano le azioni di politicanti irresponsabili.

I recensori, basandosi sul metodo marxista-leninista di indagine dei concreti processi storici, hanno mostrato in modo convincente che Shatrov distorce la storia del socialismo nel nostro paese. Oggetto del dissenso è lo Stato della dittatura del proletariato senza il cui contributo storico noi oggi non avrem­mo di che ristrutturare. L’autore, inoltre, accusa Stalin di aver fatto assassinare Trockij e Kirov, di aver «bloccato» Lenin colpito dalla malattia. Ma è forse pensabile lanciare accuse tendenziose all’indirizzo di dirigenti storici senza scomodarsi a portare prove?

Purtroppo, i recensori non sono riusciti a mostrare che il drammaturgo nonostante tutte le sue pretese non è un autore originale. Mi sembra che egli per la logica delle valutazioni e degli argomenti sia assai vicino ai motivi ispiratori del libro di B. Suvarin, edito nel 1935 a Parigi. Nel suo dramma Shatrov ha messo in bocca ai personaggi ciò che sostenevano gli avversari del leninismo a proposito dello svolgimento della rivoluzione, del ruolo che Lenin vi ha avuto, dei rapporti tra i membri del Cc nelle varie fasi della lotta interna nel partito… Di questa pasta è la «nuova lettura» di Lenin fatta da Shatrov. Aggiungo che anche l’autore dei «Figli dell’Arbat» A. Rybakov ha sinceramente riconosciuto di avere attinto, per certi spunti, da pubblicazioni di fuoriusciti.

Non avevo ancora letto il dramma «Oltre… oltre… oltre!» (non era stato pubblicato) che già potevo leggere su alcune pubblicazioni dei giudizi lusinghieri. Che cosa significa questa fretta? Ho appreso poi che si stava frettolosamente allestendo la messa in scena del dramma.

Poco tempo dopo il plenum di febbraio, la «Pravda», sotto il titolo «Secondo un nuovo cerchio?», ha pubblicato una lettera firmata da otto dei nostri maggiori uomini di teatro. Essi mettono in guardia da ritardi possibili, a loro avviso, nella messa in scena dell’ultimo dramma di M. Shatrov. Questa conclusione viene dedotta da giudizi critici sul dramma apparso sui giornali. Chissà perché i firmatari della lettera collocano gli autori delle recensioni critiche fuori dal novero di «coloro che hanno a cuore la Patria». Come si concilia questo col proclamato desiderio di discutere «vivacemente e con passione» i proble­mi della nostra storia lontana e recente? Se ne deve dedurre che soltanto a loro è consentito avere una opinione?

Delle numerose discussioni che si svolgono oggi su tutte, letteralmente, le questioni di sociologia, quale insegnante di un istituto superiore, mi interessano in primo luogo gli aspetti che influiscono direttamente sulla educazione politico-ideologica della gioventù, sulla sua salute morale, sul suo ottimismo sociale. Conversando con gli studenti, riflettendo con loro sui problemi più acuti, giungo senza volerlo alla conclusione che da noi si sono accumulate non poche storture e unilateralità che hanno bisogno chiaramente di essere corrette. Voglio soffermar­mi in modo particolare su alcune di esse.

Si prenda la questione del posto di I.V. Stalin nella storia del nostro paese. Al suo nome si collegano appunto tutti gli sfrenati attacchi critici che, a mio avviso, riguardano, non tanto lo stesso personaggio storico, quanto tutta un’epoca estremamente complessa di transizione. Epoca legata alla incomparabi­le impresa di un’intera generazione di sovietici che ora lasciano gradualmente l’attività produttiva, la vita politica e pubblica attiva. Dentro la formula del «culto della persona» vengono infilate a forza l’industrializzazione, la collettivizzazione, la rivoluzione culturale che hanno portato il nostro paese nel novero delle grandi potenze mondiali. Tutto ciò viene rimesso in discussione. Siamo giunti al punto che si è incominciato con insistenza ad esigere dagli «stalinisti» (e tra essi può essere incluso chiunque) il «pentimento»… Si lodano in modo sperti­cato romanzi e film in cui si fa opera di linciaggio di un’epoca di tempeste e di slanci, dipinta come una «tragedia dei popoli».

Faccio subito presente che né io, né i membri della mia famiglia abbiamo avuto alcun rapporto con Stalin, con il suo entourage, con il suo seguito più ristretto e i suoi adulatori. Mio padre era un portuale leningradese, mia madre lavorava come meccanico nello stabilimento Kirov, dove lavorava anche mio fratello maggiore. Mio fratello, mio padre e mia sorella sono caduti in combattimento contro gli hitleriani. Uno dei miei parenti fu represso e riabilitato dopo il 20° congresso del partito. Insieme a tutti i sovietici condivido l’ira e lo sdegno per le repressioni di massa che ebbero luogo negli anni trenta e quaranta per colpa della direzione di allora del partito e dello Stato. Ma il buon senso si leva risolutamente contro la vernicia­tura monocromatica di avvenimenti contraddittori che attual­mente comincia a prevalere in alcuni organi di stampa.

Condivido l’appello del partito a difendere l’onore e la dignità dei pionieri del socialismo. Penso che proprio da queste posizioni partitiche e di classe noi dobbiamo giudicare il ruolo storico di tutti i dirigenti del partito e del paese, compreso Stalin. In questo caso non si può ridurre tutto a un aspetto «cortigiano» o a una moralizzazione astratta da parte di persone lontane, sia da quel tempo tempestoso, sia dalla gente che allora dovette vivere e lavorare. E come lavorare! Tanto che oggi ciò costituisce per noi un esempio ispiratore.

Per me, come per molte altre persone, un ruolo decisivo nel giudizio su Stalin spetta alle testimonianze dirette dei contem­poranei, di coloro che hanno avuto a che fare direttamente con lui sia dalla nostra che dall’altra parte della barricata. Proprio queste ultime non sono prive di interesse. Prendiamo pure quel Churchill che nel 1919 andava fiero del proprio personale contributo alla organizzazione dell’intervento militare dei 14 stati stranieri contro la giovane Repubblica dei soviet ed esattamente dopo 40 anni fu costretto a definire Stalin, uno dei suoi temuti avversari politici, con queste parole: «Egli era una personalità eminente che si è imposta al nostro tempo crudele, in cui è trascorsa la sua vita. Stalin era un uomo che possedeva un’energia e un’erudizione straordinarie, un’indomabile forza di volontà; brusco, forte, spietato, sia nel lavoro che nella conversazione, al quale persino io che mi ero fatto le ossa nel parlamento inglese non potevo contrapporre nulla… Nelle sue opere c’era il segno di una forza gigantesca. In Stalin questa forza era talmente grande che egli sembrava irripetibile tra i dirigenti di tutte le epoche e di tutti i popoli. La sua influenza sulle persone era irresistibile. Quando egli entrava nella sala dove si teneva la conferenza di Jalta, noi tutti, quasi a comando, ci alzavamo. E cosa strana stavamo sull’attenti. Stalin possedeva una saggezza profonda, logica e ragionata, esente da ogni panico. Egli era un maestro insuperabile nel trovare nel mo­mento difficile la via di uscita dalle situazioni più disperate… Era l’uomo che eliminava il proprio nemico con le mani dei propri nemici, che ha costretto noi, definiti apertamente da lui imperialisti, a combattere contro gli imperialisti… Egli ha avuto in consegna la Russia con l’aratro di legno e l’ha lasciata equipaggiata con armi atomiche». Questo riconoscimento da parte di un fedele custode dell’Impero britannico non può essere dettato dalla finzione o dalla congiuntura politica.

I tratti fondamentali di questo profilo si possono ritrovare anche nelle memorie di De Gaulle, nei ricordi e nelle corrispon­denze di altri dirigenti politici d’Europa e d’America che hanno avuto a che fare con Stalin come alleato militare e avversario di classe.

I documenti sovietici, peraltro accessibili a tutti coloro che lo desiderano, forniscono un materiale serio e significativo alla riflessione su tale problema. Basta prendere i due volumi della «Corrispondenza del Presidente del Consiglio dei ministri dell’Urss col presidente degli Usa e coi primi ministri di Gran Bretagna durante la Grande guerra patriottica 1941-1945», editi da Politizdat già nel 1957. Questi documenti, a ragione, suscitano orgoglio per il nostro Stato, il suo peso e il suo ruolo in un mondo in vorticoso cambiamento. Viene alla mente la raccolta di discorsi, rapporti e direttive di Stalin negli anni della guerra, sui quali è stata educata l’eroica generazione dei vincitori del fascismo. Essa può essere ristampata tale e quale, con l’inclusione di documenti che allora erano segreti, come la drammatica direttiva n. 227, cosa del resto richiesta da alcuni storici. La nostra gioventù ignora tutti questi documenti. Per educare la coscienza storica sono particolarmente importanti le memorie dei grandi comandanti militari, Zukov, Vasilevskij, Golovanov, Stemenko, del costruttore aeronautico Jakovlev, che hanno conosciuto il comandante supremo non per sentito dire.

Non c’è dubbio, erano tempi assai severi. Ma è anche vero che la modestia personale, che arrivava fino all’ascetismo, ancora non si vergognava di se stessa ed è vero che i potenziali milionari sovietici ancora avevano timore di rompere i loro gusci per operare nella pace delle periferie burocratiche e dei magazzini all’ingrosso. Per giunta, noi non avevamo il senso degli affari, non eravamo pragmatici e abbiamo preparato la gioventù non alle finezze del consumo di beni guadagnati dai genitori ma al Lavoro e alla Difesa, senza distruggere il mondo spirituale dei giovani con «capolavori» d’importazione e con imitazioni casareccie della cultura di massa.

Dai lunghi e franchi colloqui con i nostri giovani interlocu­tori, noi traiamo la conclusione che gli attacchi allo Stato della dittatura del proletariato e ai dirigenti di allora del nostro paese, oltre ad avere cause politiche, ideologiche e morali, hanno un retroterra sociale. Non sono pochi, e non soltanto al di là dei nostri confini, coloro che hanno interesse a estendere il fronte di questi attacchi. A fianco degli anticomunisti di professione che in Occidente da tempo hanno scelto lo slogan, a loro dire democratico, dell’«antistalinismo», vivono e prosperano i discendenti delle classi abbattute dalla rivoluzione d’ottobre, che sono lungi dall’aver tutti dimenticato le perdite materiali e sociali dei propri avi. Tra questi vanno annoverati gli eredi spirituali di Dan e Martov, di altri affiliati del socialdemocraticismo russo, i seguaci spirituali di Trockij o di Jagoda, i discendenti dei nepmen, dei basmaci e dei kulaki colpiti dal socialismo.

Come è noto, ogni leader storico si forma nel contesto di concrete condizioni socio-economiche e politico-ideologiche, determinanti per la selezione soggettivo-oggettiva di coloro che si candidano a risolvere questi o quei problemi della società. Giunto sul palcoscenico della storia, un tale candidato per «tenersi a galla» deve corrispondere alle esigenze dell’epoca e delle strutture sociali e politiche dominanti, deve conformarsi nella propria azione a determinate leggi oggettive e con ciò lascia inevitabilmente l’«impronta» della propria personalità sugli avvenimenti storici. In ultima analisi, oggi sono pochi ad essere turbati dalle qualità personali, per esempio, di Pietro il Grande, ma tutti ricordano che durante il suo regno il paese si è portato al livello di una grande potenza europea. Il tempo ha condensato il risultato che attualmente sta alla base della valutazione della personalità storica dell’imperatore Pietro. E gli immancabili fiori sul suo sarcofago nella cattedrale della fortezza di Pietro e Paolo sono il segno del rispetto e della riconoscenza dei nostri contemporanei distanti dall’autocrazia. Penso che per quanto possa essere contraddittorio e com­plesso questo o quel personaggio della storia sovietica, presto o tardi il vero ruolo da lui svolto nella costruzione e nella difesa del socialismo sarà valutato in modo oggettivo ed univoco. Ovviamente, univoco non nel senso di una valutazione unilaterale, giustificatoria o ecletticamente sommatoria di fenomeni contraddittori il che consente, con giri di parole, di fabbricare qualunque giudizio soggettivo, consente cioè di «perdonare o non perdonare», di «espellere oppure lasciare» nella storia. Univoco significa innanzitutto un giudizio storico concreto, non congiunturale, nel quale si rifletta – in base al risultato storico! – la dialettica della rispondenza dell’opera di una personalità alle leggi fondamentali di sviluppo della società. Nel nostro paese queste leggi erano legate anche alla soluzione della questione «chi sconfiggerà chi?» in campo nazionale e interna­zionale. Se ci si attiene al metodo marxista-leninista di indagine storica, allora bisogna innanzitutto, per dirla con parole di M.S. Gorbaciov, mostrare chiaramente come vivevano, come lavora­vano, in che cosa credevano milioni di persone, come si sono combinate le vittorie e gli insuccessi, le nuove acquisizioni e gli errori, il radioso e il tragico, l’entusiasmo rivoluzionario delle masse e le violazioni della legalità socialista, e talvolta i crimini.

Per me non vi è dubbio che la risoluzione del Cc del partito sul superamento del culto della personalità e delle sue conseguenze, adottata nel 1956, e il rapporto del segretario generale del Cc dedicato al 70° anniversario della Grande rivoluzione socialista d’Ottobre restano tuttora il punto di riferimento scientifico, per quanto riguarda il problema della valutazione dell’opera di Stalin.

Recentemente una mia studentessa mi ha lasciato interdetta confidandomi che la lotta di classe sarebbe un concetto obsoleto come pure il ruolo dirigente del proletariato. Poco male se fosse solo lei ad affermarlo. Ad esempio, la recente dichiarazione di un rispettato accademico, secondo cui gli attuali rapporti tra gli Stati dei due differenti sistemi economico-sociali sarebbero privi di contenuto di classe, ha scatenato una furiosa discussione. Suppongo che l’accademico non abbia ritenuto necessario spiegare perché egli per alcuni decenni ha scritto proprio l’opposto e cioè che la coesistenza pacifica non è nient’altro che una forma della lotta di classe nell’arena interna­zionale. Ora si apprende che il filosofo non la pensa più così. Niente da dire, talvolta le opinioni cambiano. Mi sembra, però, che l’eminente filosofo dovrebbe sentire il dovere di fornire una spiegazione almeno a coloro che hanno studiato e studiano sui suoi libri: forse che oggi la classe operaia internazionale non si contrappone più al capitale mondiale impersonato dai propri organi statali e politici?

Mi sembra di capire che al centro di molte discussioni attuali vi sia sempre la stessa questione: quale classe o strato della società è la forza dirigente e mobilitante della perestrojka? Tra l’altro di ciò si è parlato nell’intervista che lo scrittore A. Prochanov ha rilasciato al nostro quotidiano locale «Leningradskij rabocij». Prochanov parte dal fatto che la presenza di due correnti ideologiche o, come egli dice, di «torri alternative», che da varie direzioni tentano di superare nel nostro paese «il socialismo costruito nelle lotte», caratterizza la specificità del­l’attuale stato della coscienza sociale. Pur esagerando l’impor­tanza e l’acutezza della reciproca sfida tra queste «torri», lo scrittore nondimeno sottolinea giustamente che «esse convergo­no soltanto nel fare strage dei valori socialisti». Ma entrambe, come assicurano i loro ideologi, sono «per la perestrojka».

La prima corrente ideologica, la più impetuosa, già emersa nel corso della perestrojka, aspira al modello di un non meglio definito socialismo intellettuale, liberale di sinistra, che sarebbe espressione dell’umanesimo più autentico, «depurato» dalle incrostazioni classiste. I suoi seguaci contrappongono al collettivismo proletario «il valore in sé della persona»: con le ricerche modernistiche nel campo della cultura, con le tendenze alla riscoperta di dio, con gli idoli tecnocratici, con la predicazione sulle attrattive «democratiche» del capitalismo contemporaneo e con la subalternità rispetto alle sue conquiste reali e presunte. I suoi esponenti sostengono che noi non avremmo costruito un socialismo genuino e che soltanto oggi «per la prima volta nella storia si è formata un’alleanza tra direzione politica e intellet­tualità progressista». Nel momento in cui sul nostro pianeta milioni di persone muoiono a causa della fame, delle epidemie e delle avventure militari dell’imperialismo, costoro esigono la immediata elaborazione del «codice giuridico di tutela dei diritti degli animali», attribuiscono alla natura un’intelligenza straordinaria, sovrannaturale e sostengono che l’intelligenza è una qualità biologica e non sociale, trasmessa per via genetica. Spiegatemi che cosa significa tutto ciò?

Sono proprio i seguaci del «socialismo liberale di sinistra» che producono la tendenza alla falsificazione della storia del socialismo. Essi ci vogliono far credere che nel passato del paese sono reali soltanto gli errori e i crimini, tacendo nel contempo le grandiose conquiste del passato e del presente. Rivendicando la pienezza della verità storica essi sostituiscono al criterio di analisi socio-politica dello sviluppo della società la scolastica delle categorie etiche. Grande è il mio desiderio di comprendere chi e perché ha bisogno che ogni dirigente di primo piano del Cc del partito e del governo sovietico, dopo avere lasciato la propria carica, venga compromesso, screditato in relazione ai calcoli sbagliati, ai suoi errori, reali e presunti, commessi nella soluzione di difficilissimi problemi in una situazione storica in cui le strade non erano certo spianate e scontate. Da dove ci viene tale passione per la dissipazione dell’autorità e della dignità dei dirigenti del primo Stato socialista del mondo?

La tendenza cosmopolitica palese o mascherata, un certo «internazionalismo» anazionale costituiscono un altro tratto peculiare delle concezioni dei «liberali di sinistra». Ho letto da qualche parte che quando dopo la rivoluzione una delegazione di commercianti e industriali ebrei si recò al Soviet di Pietrogrado da Trockij «in quanto ebreo» e protestò per le coercizioni delle guardie rosse, questi dichiarò di essere «non un ebreo ma un internazionalista», ciò che imbarazzò molto i postulanti.

In Trockij il concetto di «nazionale» ha un significato per certi versi riduttivo e limitato, rispetto al concetto di «internazionale». Per questo egli sottolineava la «tradizione nazionale» dell’Ottobre, scriveva sul «concetto di nazionale in Lenin», sosteneva che il popolo russo «non ha avuto alcuna eredità culturale» ecc. Noi in qualche modo abbiamo ritegno a dire che è stato proprio il proletariato russo, bistrattato dai trockisti come «arretrato e incolto», a compiere, per dirla con Lenin, le «tre rivoluzioni russe». E abbiamo anche ritegno a dire che all’avanguardia della lotta dell’umanità contro il fascismo vi furono i popoli slavi.

Naturalmente, quanto detto non significa una qualche sottovalutazione del contributo storico delle altre nazioni e degli altri popoli. Si tratta soltanto di garantire, come si dice ora, la pienezza della verità storica… Quando gli studenti mi chiedono come è potuto accadere che migliaia di villaggi delle terre non nere e della Siberia furono abbandonati, rispondo che anche questo è il caro prezzo pagato per la Vittoria e la ricostruzione postbellica dell’economia, al pari della perdita irreparabile di monumenti della cultura nazionale russa. Sono anche convinta che dallo svilimento del valore della coscienza storica derivi l’erosione pacifista della coscienza difensiva e patriottica ed anche la tendenza a etichettare come sciovinismo da grande potenza le più piccole manifestazioni di orgoglio nazionale dei grandi russi.

Ed ecco che cosa ancora mi preoccupa: il cosmopolitismo militante è collegato attualmente alla pratica del «rifiuto» del socialismo. Purtroppo noi ce ne accorgiamo e abbiamo un sussulto solo quando i suoi neofiti con le loro malefatte stanno lì ad importunare davanti allo Smol’nyj o sotto le mura del Cremlino. Anzi, in qualche modo ci abituano a vedere nel suddetto fenomeno una sorta di inoffensivo cambio di «residen­za», anziché il tradimento di classe e nazionale di persone, la maggioranza delle quali ha terminato l’università e i corsi di specializzazione post-universitaria con i soldi nostri, con i soldi del popolo. In generale, taluni sono propensi a considerare la tendenza al «rifiuto» come una qualche manifestazione di «democrazia» e dei «diritti dell’uomo», l’uomo, il cui talento non ha potuto fiorire per gli impedimenti del «socialismo stagnante». E qualora anche là, nel «mondo libero», non vengano apprezzati la spumeggiante intraprendenza e la «genialità» e il commercio della coscienza non interessi i servizi segreti, beh, si può tornare indietro…

Come è noto, in rapporto al loro concreto ruolo storico, K. Marx e F. Engels hanno definito «controrivoluzionarie» intere nazioni in una determinata fase della loro storia. Sottolineo: non le classi, non i ceti, ma proprio le nazioni. Sulla base di un approccio classista non hanno temuto di esprimere giudizi aspri su una serie di nazioni, compresi i russi, i polacchi, ed anche le nazionalità alle quali loro stessi appartenevano. I fondatori della concezione scientifico-proletaria del mondo sembrano ricordarci che nella comunità fraterna dei popoli sovietici ogni nazione ed etnia deve «preservare l’onore sin da giovane» e non cedere agli umori nazionalistici e sciovinistici. L’orgoglio nazionale e la dignità nazionale di ciascun popolo debbono fondersi organicamente con l’internazio­na­lismo di una società socialista compatta.

Se i “neoliberali” guardano all’Occidente, l’altra «torre alternativa», per usare l’espressione di Prochanov, cioè i «con­servatori e i tradizionalisti» aspirano a «superare il socialismo con un movimento all’indietro». In altri termini, aspirano a tornare alle forme sociali della Russia pre-socialista. I rappre­sentanti di questo singolare «socialismo contadino» sono rapiti da questa immagine. A loro parere cento anni fa ci fu una perdita dei valori morali accumulati dalla comunità contadina nel buio dei secoli. I «tradizionalisti» hanno meriti indubbi nella denuncia della corruzione, nella giusta impostazione dei problemi ecologici, nella lotta contro l’alcoolismo, nella difesa dei monumenti storici, nella lotta contro l’invadenza della cultura massificata che giudicano giustamente come una psicosi consumistica…

Nel contempo, nelle concezioni degli ideologi del «sociali­smo contadino» trovano spazio un’incomprensione del valore storico che l’Ottobre ha avuto per i destini della Patria, una valutazione unilaterale della collettivizzazione, considerata come «un terribile arbitrio nei confronti dei contadini», una visione acritica della filosofia mistico-religiosa russa, vecchie concezioni zariste sulla storiografia nazionale, così come c’è un rifiuto a prendere atto della differenziazione sociale dei contadini dopo la rivoluzione e del ruolo rivoluzionario della classe operaia.

Nella lotta di classe nelle campagne, ad esempio, qui non di rado si fanno avanti commissari «rurali» che «sparavano alle spalle dei contadini medi». Naturalmente, nell’immenso paese risvegliato dalla rivoluzione vi erano commissari di ogni genere. Ma, tuttavia, la direzione di marcia della nostra vita fu segnata da quei commissari contro i quali si sparava. Furono proprio essi ad essere massacrati e bruciati vivi, sulle loro spalle si incideva il segno della stella rossa. La «classe attaccante» ha dovuto pagare un prezzo, non soltanto con la vita dei commissari, dei «cekisti», dei bolscevichi dei villaggi, dei membri dei comitati dei poveri, dei «ventimila», ma anche con la vita dei primi trattoristi, dei corrispondenti rurali, delle ragazze insegnanti, dei giovani comunisti, di decine di migliaia di altri ignoti combattenti per il socialismo.

Le difficoltà nell’educazione della gioventù si aggravano anche perché, sulla scia delle idee dei «neoliberali» e dei «neoslavofili», si costituiscono organizzazioni e gruppi informali. Acca­de che tra chi li dirige prendano il sopravvento elementi estremi­sti, capaci di organizzare provocazioni. Negli ultimi tempi, si è registrata una politicizzazione di queste organizzazioni autono­me sulla base di un pluralismo che è lungi dall’essere socialista. Non di rado, i dirigenti di tali organizzazioni parlano di «spartizione del potere» sulla base del «regime parlamentare», di «liberi sindacati», di «case editrici autonome» ecc. A mio avviso, tutto ciò consente di concludere che il punto principale, cardinale del dibattito attualmente in corso nel paese è questo: riconoscere o no il ruolo dirigente del partito, della classe operaia nell’edifica­zione socialista e, quindi, nella perestrojka. Ovviamente con tutte le conseguenze teoriche e pratiche che da ciò derivano per la politica, l’economia e l’ideologia.

La questione del ruolo dell’ideologia socialista nello svilup­po spirituale della società sovietica deriva da questo problema chiave della concezione storico-sociale del mondo. A proposito, questa questione fu sollevata già alla fine del 1917 da K. Kautsky, il quale, in uno dei suoi opuscoli dedicati all’Ottobre, dichiarò che il socialismo si distingue per la pianificazione ferrea e la disciplina nell’economia e per l’anarchia nell’ideolo­gia e nella vita culturale. Queste affermazioni suscitarono l’esultanza dei menscevichi, dei socialisti rivoluzionari e di altri ideologi piccolo-borghesi, ma incontrarono un’opposizione risoluta da parte di Lenin e dei suoi compagni, che difendevano coerentemente, come allora si diceva, le «postazioni dominanti» dell’ideologia scientifico-proletaria.

Ricordiamo: quando V.I. Lenin si scontrò con la manipo­lazione dei dati statistici sui divorzi a Pietrogrado operata da un sociologo allora popolare, Pitirim Sorokin e con gli scritti di ispirazione religioso-conservatrice di Vipper (che, tra l’altro, rispetto a quelli che si pubblicano attualmente da noi appaiono del tutto innocenti), egli, attribuendo la loro comparsa all’inesperienza degli addetti ai mass media, constatò che «la classe operaia in Russia ha saputo conquistare il potere ma ancora non ha imparato a usarlo». Altrimenti, osservava Lenin, il proletariato rivoluzionario avrebbe «gentilmente accompagnato» fuori dal paese questi professori e scrittori che per l’educa­zione delle masse «valgono quanto noti stupratori varrebbero nel ruolo di istitutori nei collegi per minorenni». Tra l’altro, dei 164 espulsi alla fine del 1922 in base alla lista del Comitato esecutivo centrale pansovietico, molti sono poi ritornati e hanno servito onestamente il proprio popolo, compreso lo stesso professor Vipper.

Mi sembra dunque che la questione del ruolo dell’ideologia socialista si presenti oggi con estrema acutezza. Dietro la bandiera della «purificazione» morale e spirituale, gli autori di falsificazioni dettate dalla congiuntura erodono i confini e i criteri dell’ideologia scientifica strumentalizzando la trasparen­za, coltivano un pluralismo non socialista, il che oggettivamente fa da freno alla perestrojka nella coscienza sociale. Ciò si riflette in modo particolarmente morboso nei giovani, cosa che, lo ripeto, viene percepita chiaramente da noi insegnanti degli istituti superiori, dai maestri di scuola e da tutti coloro che si occupano di problemi giovanili. Come ha detto M.S. Gorbaciov al plenum di febbraio del Cc del Pcus, «anche nella sfera spirituale e forse proprio qui in primo luogo noi dobbiamo operare facendoci guidare dai nostri princìpi marxisti-leninisti. Compagni, non dobbiamo per nessun motivo transigere sui princìpi».

Siamo fermi e resteremo fermi su questo. I princìpi non ci sono stati donati, li abbiamo sofferti nei bruschi tornanti della storia della Patria.

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5 commenti a In morte di Michail Gorbačëv: la catastrofe priva di catarsi dell’URSS e la grande rimozione occidentale

  1. giovedì, 1 Settembre, 2022 at 12:17

    Grazie Stefano per aver ricordato la verità colpevolmente taciuta o addirittura stravolta da troppi notisti sui giornali e in rete: NON FU GORBACEV a “dissolvere l’Unione Sovietica”, fu il patto segreto a tradimento firmato da Eltsin, Kravciuk e Suskevic, i presidenti di Ucraina e Bielorussia, che l’8 dicembre del ’91 portò alla dissoluzione di fatto dell’Unione Sovietica: dichiarazione che fu firmata, non a Mosca dove il 25 novembre tutte le rappresentanze delle Repubbliche Sovietiche avevano sottoscritto la bozza del nuovo Trattato di unione democratica e federale, ma in seguito a trattative segrete nella foresta di Belovez ai confini con la Polonia, e inviata, curiosamente, in primo luogo a George Bush, come ho ricordato qui: https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2022/05/la-guerra-il-pensiero-arcaico-e-le-attese-dellumanita-ii-di-roberta-de-monticelli/
    E’ sacrosanto anche ricordare, come tu fai che il maldestro colpo di stato conservatore perpetrato alle spalle di Gorbacev , “i cui protagonisti dimostrarono di non avere intenzione di procedere a spargimenti di sangue, finì paradossalmente per offrire il pretesto per il vero colpo di stato, incensato dagli occidentali come “trionfo della libertà e democrazia”, effettuato da un altro dei suoi collaboratori, Boris Eltsin, con l’appoggio dei suoi sponsor occidentali”. Tanto vero è questo, quanto folle il definire “liberistico” il caos spaventoso che in assenza di ogni cornice normativa efficiente portò l’apparato sovietico a saccheggiare le risorse dell’URSS, creando fame, disperazione e ascesa degli oligarchi, con l’aiuto quotidiano delle mafie. La letteratura su questa fase, che del resto spiega poi il successo di Putin, è immensa, a cominciare dagli scritti della Politkovskaia. Lo so che ci furono anche consiglieri statunitensi: e tuttavia chiamare “liberismo” il regime dei kleptocrati e degli assassini mafiosi (che prima compravano gli appartamenti dei vecchietti lasciando loro l’usufrutto, e poi li uccidevano): questo non mi sembra onorare il vero.
    Infine grazie per aver riportato la lettera vibrante di Nina Aleksandrovna Andreeva, da cui si evince cosa fu, per l’attimo in cui ci fu davvero, la perelstrijka, questa che Gorbacev intendeva in primo luogo come la rivoluzione democratica delle coscienze, inscindibile tuttavia dalla prospettiva di un nuovo ordine mondiale, dove il diritto prevalesse sulla selva geopolitica. Spinelli lo capì prima di morire, già nell’86. Lettera vibrante, sì, ma anche tragica, perché mostra le ragioni della sconfitta di Gorbacev anche in patria, dove anche i suoi concittadini migliori non ne capiriono fino in fondo la grandezza visionaria. Perché quello che forse non poteva essere chiaro a un cittadino sovietico nel 1988, oggi – ma in verità in molte menti molto, molto prima: già negli anni Venti, dato che Lev Gumilev, il poeta marito di anna Achmatova, fu torturato e ucciso già nel 1921 – ebbero a capire e soffrire, da Pasternak a Bulgakov a Vladimir Grossmann (“questa creatura appena nata in Russia – la libertà – non aveva che sei mesi…” e fu strozzata in culla. Tanto che è con rispetto, abbassando gli occhi di fronte alla sofferenza, che dobbiamo ascoltare queste sue parole – ma non ci dovrebbe esser dato (sempre per amore della verità) sottoscriverle: “che la coesistenza pacifica non è nient’altro che una forma della lotta di classe nell’arena interna¬zionale”. O che sono “accuse tenziose” quelle a Stalin “di aver fatto assassinare Trockij e Kirov, di aver «bloccato» Lenin colpito dalla malattia”. O addirittura che non si dovrebbero giudicare i massacri e la deportazioni staliniane secondo categorie etiche, ma secondo i canoni storici e sociologici della lotta di classe. O infine che l’indebolimento del crirterio storicistico conduce al pacifismo e alla caduta del giusto orgoglio per la potenza nazionale e le giuste guerre degli Zar. Ecco: non sono affermazioni da brivido, che Putin sottoscriverebbe interamente?E non sono tanto più tragiche quanto più si sente l’accecata buona fede di chi le ha scritte?

  2. Stefano Cardini
    giovedì, 1 Settembre, 2022 at 16:05

    Cara Roberta, grazie di avere dettagliato acquisizioni che purtroppo non sono divenute senso comune né nella Federazione Russa né al di fuori. Non entro più che tanto nella disputa sui termini “liberalismo”, “liberismo”, “neoliberismo”, “neoliberalismo”. Li uso come si trovano per lo più nella letteratura economica, sociologica e storica, anche riferiti al drammatico passaggio tra URSS e la Federazione Russa. La “libera concorrenza” idealizzata da Adam Smith la lascerei – al netto della retorica – dove è nata e rimasta: nelle pagine della sua opera più famosa. In merito alla lettera di Andreeva, molte cose meriterebbero di essere analizzate. Naturalmente si percepisce nettamente un rigido storicismo marxista-leninista dell’analisi e l’ampiamente discutibile carattere difensivo e ideologico di molti giudizi storici. Esiste però anche una “dogmatica etica”, come anche lei la chiama, che preclude la comprensione della realtà fino a rendere irresponsabilmente ciechi nel farvi fronte, come altre volte hai avuto modo di evidenziare anche tu. Nessuno, neppure lei, si rifiuta di esprimere giudizi di valore etici. Negare però la necessità, a sua volta etica, di offrire loro un adeguato contesto interpretativo attestabile, è l’atteggiamento superficiale e liquidatorio a cui si oppone e al quale credo dovremmo opporci tutti per evitare che l’etica si riduca a terreno della manipolazione e strumentalizzazione della realtà per altri fini, cosa puntualmente avvenuta allora come oggi. Questo vale anche per la lettura della realtà e della storia come “lotta di classe”, ossia lotta attorno al capitale-denaro, ai suoi equilibri e frutti e alle norme che ne disciplinano giuridicamente il controllo ed esercizio proprietario, nazionale e internazionale. Nessuno intende erigerla a categoria interpretativa esclusiva. Semplicemente, espungerla o svilirla come chiave di lettura, nonostante milioni di persone la sperimentino oggi spesso irriflessivamente sulla loro pelle ogni giorno, è all’opposto di un atteggiamento etico ammissibile e spalanca praterie a quanti da questa diserzione teorica e pratica sono favoriti nel mobilitare il consenso nelle peggiori direzioni possibili. È già accaduto, sta di nuovo accadendo.

  3. Angelo Ponta
    giovedì, 1 Settembre, 2022 at 18:17

    Non so, Stefano. Al di là dei brividi che mi vengono quando qualcuno (chiunque) si esprime in termini di “la salute morale della gioventù” (e se ne erge a difensore), cerco di andare oltre. E dunque. Arrivato al punto del (bel) documento in cui Andreeva scrive che “gli attacchi allo Stato della dittatura del proletariato e ai dirigenti di allora del nostro paese, oltre ad avere cause politiche, ideologiche e morali, hanno un retroterra sociale”, ho sperato che da lì iniziasse un ragionamento sul retroterra sociale, appunto. Invece si trattava solo, direi, dell’introduzione al contrattacco. Contro gli “anticomunisti di professione”, contro i “discendenti delle classi abbattute dalla rivoluzione”, contro gli intellettuali che pur avendo studiato a spese del popolo ora si interessano ai diritti degli animali invece che alla ridefinizione della lotta di classe. E sarà anche stato tutto vero (io non vivevo in Urss, Andreeva avrà parlato a ragion veduta), ma mi viene il dubbio che nemmeno lei stesse utilizzando il “metodo marxista” per interpretare la propria società e le sue dinamiche presenti (mentre è più generosa nell’usarlo a proposito del passato). Il “popolo” avrà probabilmente avuto i suoi rancori, nei confronti degli “intellettuali”, e pure con buone ragioni, ma mi pare che con ciò si eviti di chiedersi se lo stesso popolo non ne avesse, di rancore, anche nei confronti del proprio sistema di governo – e, nel caso, se non ci fossero delle ragioni non solo culturali. Non sarà che dietro la fondata critica o persino ridicolizzazione delle affermazioni di qualcuno (i deviazionisti, gli intellettuali, i radical chic, le femministe: ogni “categoria” presenta i propri trinariciuti, basta cercarli o volerli cercare) Andreeva nasconda anche a se stessa il fatto che qualcosa (di strutturale) non va? Perché alla fine, quando si guarda all’essenziale (“i rapporti di produzione, compagni”) può capitare di scoprire di avere dei torti nonostante il fatto che tanti avversari (gli “intellettuali” antisocialisti, in questo caso) non abbiano ragione. Capita, e non manca la letteratura al proposito, anche senza scomodare la ridicolizzazione di Rakosi da parte di Sartre (“Budapest aveva bisogno di una metropolitana. Se il sottosuolo di Budapest non era adatto ad accogliere una metropolitana, allora il sottosuolo di Budapest era controrivoluzionario”). Per dire che non è necessario sputare sulla storia dell’Urss, per criticarne la traiettoria. Che la dittatura del proletariato sia presto diventata una dittatura del partito, che il socialismo si sia modellato come un capitalismo di stato, eccetera… si è trattato in larga misura di scelte rese obbligate dalle emergenze, dagli eventi, dalle guerre, dalla solitudine, e poi cristallizzatesi nei decenni, fino a quando il cristallo non si è frantumato. È vero quindi, come dice Andreeva, che è indecente e pure inutile gettare colpe sugli individui senza guardare al contesto (tanto più è bene ricordarsi che non è il singolo a fare la storia). Ma è inutile (benché consolatorio) anche limitarsi a maledire chi inveisce, pensando che la colpa sia di costui. C’è stata un’implosione, le cui cause sono state (credo) storicamente non abbastanza analizzate e dalle quali (sono sicuro) politicamente ci si è tenuti alla larga, per incapacità, o paura, o stanchezza, o sfiducia, o perché deve ancora passare un po’ tempo (come disse credo Zhou Enlai a chi gli chiedeva un parere sulla Rivoluzione Francese). Credo che Gorbaciov abbia calato dall’alto le proprie riforme, e abbia incontrato le sue belle difficoltà, e abbia probabilmente fatto le sue belle cazzate. Credo che l’Occidente, invece di dargli una mano (a lui e a una diversa possibilità di mondo) abbia ritenuto più utile bastonare il cane che stava affogando. Questo non ci stupisce, no?: te li vedi, gli Stati Uniti, che aiutano e incoraggiano un paese a trovare la propria via al socialismo? Credo ovviamente che per decenni si sia sventolata, di qua dal muro, la parola “libertà” solo per mascherare la parola “consumo”, e le due sono diventate sinonimi. Ma anche questo non ci sorprende (benché non ci piaccia, perché consumo è individualismo, egoismo, mentre per noi libertà è qualcosa di diverso). Ma quindi? Il consumismo è stato usato come specchietto per le allodole, ma è marxista ritenere che il problema sia consistito in ciò: nel fatto che il “popolo” si è comportato da allodola? Tutto qua, davvero? Tutti ignoranti? È “solo” uno scandalo se il mondo non viene più interpretato attraverso il filtro della lotta di classe? Solo un problema culturale, di infiltrazione di provocatori, di Steve Bannon? Noi, che vediamo lontano, quale ruolo abbiamo, nel flusso? Chi siamo, cosa diciamo, cosa facciamo oltre a rimproverare il proletariato di votare a destra e di non ascoltare le nostre sante parole? Davvero, al contrario dei consumisti, sappiamo mettere il “noi” davanti all’ “io”?

  4. Stefano Cardini
    domenica, 4 Settembre, 2022 at 15:35

    Hai ragione, Angelo. L’intrasparenza a se stessa dell’economia e società sovietica fu uno dei nodi più difficili da sciogliere per un sistema che, dovendo difendere l’idea di avere abolito le classi sociali, preferiva mentire sistematicamente a molteplici livelli sullo stato delle cose, anziché affrontarne i problemi. Gorbacev per primo rimaneva stupefatto e scoraggiato dell’incertezza che aleggiava attorno alla conoscenza dello stato del Paese. Non c’è traccia di analisi sociale, a maggior ragione marxista-leninista, nella lettera di Andreeva, soltanto la cronaca del deragliamento e dello smarrimento ideologico dalle derive autolesionistiche che in un momento di drammatica transizione come quello avrebbero fatto la fortuna degli pseudo-democratici che presero in mano il Paese dopo il golpe sventato e quello riuscito svendendolo a se stessi e ai nemici storici oltre la cortina di ferro. Mi limito, per dare un’idea, a citare un passo dal libro del 1992 “L’uomo da un rublo” di Chodorkovskij, oggi oligarca in esilio tra i più ascoltati in Occidente. Già allora proprietario di una banca, Chodorkovskij divenne il capo della società petrolifera ex-statale Yukos, l’uomo più ricco del Paese e tra i più ricchi del mondo, aspirando per un certo tempo alla leadership politica. Putin lo inquisì per vari supposti reati contro lo Stato, costringendolo alla fuga. Da allora vive a Londra e finanzia l’organizzazione “democratica” Open Russia: «È tempo di smettere di vivere secondo il dettato di Lenin! La luce che ci guida è il Profitto, guadagnato in modo rigorosamente legale (sic!). Il nostro signore è Sua Maestà il Denaro. Solo lui ci può guidare verso la ricchezza come regola di vita. È tempo di abbandonare l’Utopia e di dedicarsi agli Affari, che vi renderanno ricchi!» (da Masha Gessen, “L’uomo senza volto. L’improbabile ascesa di Vladimir Putin”, Sellerio, 2012). Ora, non c’è qui lo spazio per fare bilanci, sempre che siano possibili, di un evento della portata tragicamente storica come la Rivoluzione d’ottobre, i cui effetti andarono e ancora vanno ben oltre i suoi confini geografici. Ma, letto questo stralcio del manifesto “morale” di Chodorkovskij, credo che s’intendano meglio le preoccupazioni di educatrice prima ancora che di politica della Andreeva. Inadeguate, ma profetiche. Diffidare di qualunque “pedagogia sociale” di diretta derivazione statale è saggio. Ma che dire della pedagogia sociale in cui furono immersi in quegli anni e nei seguenti i giovani non più sovietici e in cui oggi ancora sono grandemente immersi i nostri, ai quali nessuno toglie formalmente la voce, ma soltanto a patto che il loro grido non si levi, non si oda e comunque resti irrilevante? Come mettere ancora un “noi” qualsiasi davanti a questa moltitudine di “io” ai quali ogni giorno viene catechizzato in infiniti modi da infiniti modelli il dovere di votarsi a null’altro che al proprio riconoscimento (i nemici platonici “denaro, fama, potere”, oggi pudicamente denominati “eccellenze”) e a quello della nicchia cui si sentono di appartenere?

  5. Angelo Ponta
    domenica, 4 Settembre, 2022 at 16:44

    Sì, questo sarebbe un altro bel tema. Per decenni ci siamo sentiti rimproverati in quanto dittatori in erba, o derisi in quanto utopisti medievali, per il fatto che le nostre idee (ideologie) prevedevano, richiedevano, auspicavano nientemeno che “l’uomo nuovo”. Un progetto disumano che, ovunque tentato, non aveva prodotto e non può produrre altro che mostri, comunisti o fascisti che siano. L’uomo nuovo non si progetta, è contronatura, la maledizione di Frankenstein colpisce l’irresponsabile.
    E ora eccoci qua: non è una “umanità nova” quella cresciuta in questi quarant’anni? Non è stato un cambiamento quasi genetico, più che di paradigma e di cultura? Salvo che l’uomo nuovo, zitti zitti (quasi) lo hanno costruito Thatcher, Reagan, i Chicago boys.

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