Sentimenti di prorompente vergogna: un piccolo capolavoro di narrativa e fenomenologia

sabato, 13 Agosto, 2022
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Andrea Bonomi è stato maestro di molti di noi – come filosofo del linguaggio e per i più esperti autore innovativo in semantica formale. I suoi antichi allievi e tutti i suoi amici ben conoscono anche la sua produzione saggistico-letteraria, e il sorprendente, bellissimo primo esperimento di medicina narrativa, Io e Mr.  Parky (si trova molto sul suo soberrimo sito: Andrea Bonomi) Questa lettera che qui riprendo, scritta a caldo dopo aver letto d’un fiato la sua ultima prova narrativa è meno e più di una recensione. Meno, perché più lunga e approfondita analisi meriterebbe il linguaggio di Bonomi, nel suo sapiente equilibrio di straniante formalità, specie nei dialoghi, e vivida ma esattissima descrizione, che riesce ad essere potentemente evocativa nonostante la completa assenza di aloni lirici. Insomma è un libro bellissimo, e io non volevo soltanto dirlo a lui – vorrei che molti altri  lo leggessero, come credo stia già succedendo: e non è sorprendente. Ti cattura proprio! E preferisco conservare la forma e lo stile di una lettera, perché non è solo un’espressione di ammirazione e gratitudine, ma contiene una domanda, piuttosto seria per un filosofo – una domanda che rivolgo a lui, ma anche ai quattro gatti della nostra comunità. Una domanda che non smette di lavorare dentro…

Caro Andrea,

Finalmente mi sono ritagliata qualche pomeriggio da dedicargli. Al tuo ultimo libro,  Sentimenti di prorompente vergogna. E non solo non ho dovuto fare nessuna fatica, ma mi ha agganciato subito, e non ho più smesso fino alla fine. Ne sono uscita profondamente ammirata. Sono andata anche a vedere il blog che segnali, dove si parla bene di Io e Mr. Parky: come ricorderai anche quel libro mi era piaciuto molto. Ma questo nuovo non ha niente a che vedere con la “medicina narrativa”: è narrativa e basta, e – chi lo avrebbe mai creduto possibile – emotivamente esplosiva, tanto più intensa quanto sorvegliato, quasi straniato nella sua lontananza da qualunque naturalismo, è l’eloquio. Sorvegliato e straniato: ma di una precisione hopperiana. Ci sono pagine che veramente pochi avrebbero saputo scrivere. Ho ammirato enormemente, per farti un esempio, la descrizione delle mani della pianista – ma tutto l’episodio musicale della variazione su Debussy (a proposito: chi è il gigante gentile?)* è magistrale. Ma quando poi arrivi a vedere dal vivo il laboratorio di macelleria, resti senza fiato. Un coraggio ci vuole, a fornirsi di tanti occhi quante parole, a guardare e far vedere con tanta disperante precisione la geometria della morte. Tanto che alla fine – la conclusione della vicenda del ragazzo sembra un teorema: c’è un senso di necessità, direi di impossibilità di alternative, che neppure una tragedia greca… eppure, è una necessità tanto più forte (e disperante, per il lettore) quanto “imparziale” è l’osservatore e narratore, quanto impliciti e non esibiti i suoi personali sentimenti.

Vorrei dirtene di più, ma mi manca l’arte: non sono un critico letterario – e forse questo aumenta il mio personale coinvolgimento. Non nelle vicende narrate: ma nel dubbio. Il dubbio che per la verità mi accompagna, e credo abbia accompagnato noi tutti, per tutta la vita. Ma cosa ha a che fare con la vita la filosofia, quella non trombona alla quale, ciascuno a suo modo, ci eravamo dedicati? Perché questa enorme differenza di potere non dirò persuasivo soltanto, ma…. cognitivo, fra un buon argomento filosofico e una vera pagina narrativa? Certo, il tuo libro in filosofia può in parte tradursi: c’è un filo e un tema che lo attraversano tutto, e la tua fenomenologia della vergogna costituisce un insieme straordinario di esemplificazioni vincolate da una sorta di fondazione unitaria: tutto il libro è una variazione eidetica di straordinaria ricchezza. Ma la cosa destabilizzante è che è molto di più! Come se suggerisse: vedi, chiunque sappia far vivere situazioni drammatiche (nel senso tecnico, non nel senso retorico del termine) fa molto meglio il tuo stesso mestiere, o anzi, ne estrae tutto il succo e passa oltre, verso la vera realizzazione di ciò cui la tua filosofia, i suoi motti ti richiamavano incessantemente: la sovranità dell’oggetto, il lasciar parlare le cose stesse.

“Il tuo stesso mestiere”: alla fine, a questo ho anche io dedicato la vita – dicevamo, ciascuno lo ha fatto a suo modo, e io ho tentato di prendere il più sul serio possibile la fenomenologia. E poiché mi sono sentita cieca e sorda ogni volta che il pensiero non chiariva un po’ l’esistenza, gli atteggiamenti i sentimenti le scelte i comportamenti, io ho cercato di prenderla sul serio spremendone quanto ho potuto l’aspetto di filosofia morale, che è un concetto più vasto di quello di etica nell’uso corrente o anche accademico. Con più precisione dovrei dire “filosofia dell’esperienza morale”.

Ma c’è una riserva mentale – una sorta di autodifesa, un trincerarsi in una routine, che possiamo chiamare metodo, scientificità, ricerca o quant’altro – che accentua in ogni caso la resistenza e inibisce la resa. Resistenza e resa, intendo dire, a quella forma di pietas che sta nella raccolta, nella custodia, nel portare in salvo un po’ della vita che ci è toccata in sorte, perché se ci è toccata e ci ha toccato andava salvata, e rimandiamo sempre, fino a che, come tu scrivi, le storie che viviamo si dissolvono. Tranne quelle che “ci ostiniamo a scrivere”.

Come se per varcare la soglia che separa la resistenza dalla resa fosse necessario passare per …. una forma di disperazione. Magari soberrima, autoironica, distaccata da se stessi. Ma pur sempre disperazione – diciamo così per non essere troppo indeterminati – quanto al potere illuministico della filosofia. Oltre quella soglia alcuni arrivano a ricevere, e a trasmettere, una sorta di donum vitae – che è poi l’attributo teologico dello Spirito (e lo fa capace di “ricreazione”). Tu ci sei proprio arrivato e bisognava che te lo dicessi!

Anche per rassegnarmi in pace. Perché come si fa a disperare della filosofia se la filosofia nasce precisamente contro scetticismo e sofistica, vale a dire contro la disperazione intellettuale. E’ il riflesso husserliano: accettare la sfida, sempre, e accettandola, disarmarla.

E rassicurarsi. Per aprire gli occhi sulle cose stesse? O al contrario, per restarne illesi?

E’ questo il dubbio che fai rinascere. E’ una lezione anche questa, no? Che non immaginavo avessi in serbo, una vita dopo i seminari in via Festa del perdono.

* da una comunicazione dell’Autore: si tratta di Sonny Rollins, (che riprende la rêverie di Debussy):

https://www.youtube.com/watch?v=tAvzRqtbC80.

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