Il sogno di un uomo nobile. Riflessioni sul senso del Natale a partire dall’arresto di Munther Amira

lunedì, 25 Dicembre, 2023
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“Buon Natale” – un augurio che si fa veramente fatica a esprimere, oggi. Forse mossa dal disgusto di questa frase (se scambiata così, distrattamente, cioè senza guardare al contempo i bambini straziati ogni minuto a Gaza) ho scritto un pezzo di giornale per capire cosa significa forse, “Natale”. Ed ecco, assolutamente nulla se si dimentica dove avviene il morire: fisicamente e spiritualmente atroce, ingiusto, infame, ignoto. Come bestie a un macello industriale, e ciascuno quella sola povera vita aveva, e giĂ  tanto poco aveva in sorte, quella povera vita schiacciata sotto macerie e piombo quando non strappata con mani di ragazzi ridotti a impazziti macellai, a vent’anni. Metafora del mondo.

“Che cos’è spirito se non trasvalutazione di una sostanza tragica?” Questa frase è apparsa inintelligibile o retorica, o forse assurdamente melensa, ricami filosofici sull’orrore. Eppure è secca, descrive la resurrezione insieme con la croce. O la nascita del divino. Il bambino che nasce mentre c’è la strage degli innocenti. Descrive questi  eventi senza sapere se descrive il vero, ma come improvvisamente trovando un senso visibile al mistero. “Cristiano”.  Avviene quando la disperazione, senza che uno capisca perchĂ©, si rovescia in speranza, e anche detto così è sbagliato. Si dovrebbe dire, quando la disperazione che è abissale in basso sale, oltre il petto, oltre la gola e gli occhi e lì, all’altezza del pianto e del cielo, erompe come pensiero nuovo, azione nuova, speranza. Ma scrivo io, non scrive l’angelo. E io non so dare che parole umane alla speranza che il vero sia riconosciuto, che l’infamia, l’ingiustizia, la menzogna, il genocidio siano svelate in tutto il loro orrore, e l’umanitĂ  si levi e un Basta erompa come un geyser, come “spirito” o soffio di tutti i venti su per le canne di un organo cosmico, come una fragorosa polifonia che arresti la strage e disarmi le mani insanguinate, impazzite dei re di Israele: e le disarmi e le mostri al cielo e ai morti di oggi e agli altri morti, ai loro stessi morti  nei campi di sterminio,  alle vittime innocenti che i loro avi furono e che il  sangue delle loro mani insozza. 

Così mi parve di capire, retrospettivamente, il senso della luce che emanava dall’irremovibile fiducia di quell'”uomo nobile” – Munther Amira cui il pezzo era dedicarto –  che esistesse pure un giudice a Berlino, che diritto e comunitĂ  internazinale conoscessero e custodissero ragioni e torti, per tradurli un giorno in giustizia.  Un giorno?  L’anno prossimo, a Gerusalemme. 

Riporto qui l’articolo pubblicato sul Manifesto del 24 dicembre, troncato in molti punti cruciali, per comprensibilissime ragioni, ma così reso forse ancora piĂą incomprensibile. E sotto, la versione originaria, o la meno lunga di esse. 

Munther Amira! Il messaggio si diffonde in rete, rotola giù nell’angolo del computer. Arrestato. Con violenza, come sempre. Un’irruzione in casa sua, nel campo profughi di Aida, vicino a Betlemme, alle tre del mattino. Lo hanno picchiato, mentre chiudevano sua moglie e i suoi figli in una stanza. Lo hanno trascinato in strada, legato e bendato. Ma prima hanno preso a coltellate la maglietta di un suo figlio adolescente, per lacerare la mappa della Palestina che ci era stampata sopra. Nel frammento di video qualcuno è riuscito a girare e diffondere si sente la voce della figlia piccola, limpida. Grida al al suo papà che gli vuole bene. Nient’altro.

Una famiglia di profughi, a Betlemme, a Natale. Forse vi ricorda qualcosa. Ma qui tutto è più feroce e irrazionale che ai tempi di Erode e dei Romani, quando secondo il vangelo di Matteo (2,13-23) Giuseppe “levatosi, prese il bambino e sua madre e di notte partì per l’Egitto”, per sfuggire alla strage degli innocenti. Qui i profughi sono eternamente tali, sono qui dal ’48: proprio perché in Egitto non ci sono voluti andare. Perché in ogni famiglia, di generazione in generazione, hanno tramandato la speranza e il suo simbolo, la chiave del ritorno alle case da cui furono cacciati già durante la Nakba. Prima da altri profughi: gli ebrei dall’Europa che non li voleva, nel dopoguerra. Poi via via nei decenni, e massicciamente dopo gli accordi di Oslo (1993-95), da chiunque dal mondo della Diaspora ebraica volesse trasferirsi negli insediamenti coloniali sempre più enormi costruiti dalle imprese edilizie israeliane con il sostegno economico e militare dello stato ebraico di Israele, che hanno i nomi di Dio per marketing immobiliare, l’occupazione e i muri per la feroce normalità delle usurpazioni.

Proprio da Munther, presidente del Centro per la Gioventù di Aida, attivista del Popular Struggle Coordination Committee (resistenti nonviolenti), hanno imparato queste cose i molti italiani che, negli anni, hanno fatto un “viaggio di conoscenza” in Palestina, ad esempio con AssopacePalestina.org . E’ lui che accoglieva i visitatori sotto l’arco che immette nel campo, sormontata dalla grande chiave che lui stesso aveva forgiato: “perché nessuno dimentichi la promessa del ritorno”, spiegava. Lo ricordo vividamente, mentre illustrava il muro che porta iscritti i nomi dei 600 bambini trucidati a Gaza, su 2600 vittime civili complessive, nel 2014. C’era nella sua voce e nel suo sguardo una malinconia di cui mi stupiva la luce. Allora ne capii solo la sostanza tragica: parlava della “trappola” che era stata la trasformazione delle povere tende del ’48 prima in rifugi col tetto di latta, poi in case di cemento, ammucchiate l’una sull’altra – ma alcune anche belle, diceva. Non era rimasto che questo, alla sua gente: la dignità di “rifugiati” e il sogno “legale” del ritorno. Eppure erano tanti i lavoratori palestinesi che si guadagnavano la vita e un po’ di benessere costruendo le case dei coloni – e il loro annientamento civile. Proprio per questo Munther aveva forgiato la grande chiave, perché il sogno non fosse dimenticato.

Ma la sostanza dei sogni non è diversa da quella delle idee, come pace e giustizia. E non è diversa da quella dello spirito, che soffia dove vuole, e non dove stanno i suoi templi. Ecco un aspetto dell’apocalisse, la “rivelazione”, oggi in corso a Gaza. Lo ha intravisto Raniero La Valle: se Israele è lo “Stato-nazione del Popolo Ebraico”, allora “per i palestinesi non c’è posto se non in quanto privati dei diritti e soggiogati, e siccome questo non è indefinitamente possibile, devono essere espulsi o indotti o costretti ad andarsene. La guerra di Gaza è un momento della realizzazione politica, cioè effettiva, di questo modello giuridico” (Costituenteterra.it, 21 dicembre).

Questo era il non detto negli occhi di Munther. Ora vedo che era più che malinconia. Quell’uomo nobile era letteralmente crocefisso al paradosso di un sogno eternizzato nel cemento – e svuotato di spirito profetico. Ma che cos’è lo spirito se non è trasvalutazione della sostanza tragica? E perché il Nazareno, chiamato a leggere un passo del profeta Isaia (Luca 4.18-19) lo tronca là dove l’annuncio di liberazione degli oppressi, che inaugura “l’anno di grazia”, si fa annuncio della “vendetta di Dio”?

Nel 1950 l’Assemblea Generale dell’ONU approvò la risoluzione 377, “Uniting for Peace”, secondo la quale, se il Consiglio di sicurezza non è in grado di mantenere la pace e la sicurezza internazionali, potrebbe essere l’Assemblea generale ad assumere un ruolo di “supplenza” e a intervenire. Certo, solo il Consiglio di sicurezza può imporre “obblighi giuridici”. Ma lo vediamo: gli obblighi giuridici non significano nulla se le potenze che decidono li vanificano coi loro veti. Invece nel nome dell’”unitĂ  per la pace” l’enorme maggioranza degli stati che hanno votato per il cessate il fuoco (e sottrarrebbero allo stato ebraico autoritĂ  esclusiva nella gestione del futuro) acquisterebbero alle idee di pace e di giustizia la forza della legittimitĂ . Come un coro immenso, una polifonia che ridarebbe voce allo spirito, oggi afono.

C’era luce e non solo malinconia nello sguardo di Munther Amira. Ora che gli sgherri di Erode Antipa lo hanno messo in catene, forse vedo il significato di quella luce, dove la disperazione si trasvalutava in speranza – sogno, legge, spirito. Non ci resta che pregare, ciascuno a suo modo, perché cada su di noi “l’anno di grazia”: 2024.

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