C’entra con la guerra, la filosofia? Una risposta a Biagio de Giovanni

giovedì, 9 Febbraio, 2023
By

Questa è una replica a un articolo di Biagio de Giovanni, uscito sul Corriere della sera dell’8 febbraio: “Questo scontro è carico di filosofia”. Mi sono sempre chiesta che cosa mi lascia di sale in tutti quelli che affermano: La russia attacca l’Occidente e i suoi valori – l’Ucraina difendendosi lo difende – dobbiamo armare l’Ucraina fino alla vittoria. (La riflessione di de Giovanni a questo assunto mainstream aggiunge  una specie di nobilitazione tragica del mattatoio, corredata da una sorta di dialettica storicistica: un necessario conflitto di civiltà e delle filosofie che le animano). Ho trovato cosa mi sconcerta: la contraddizione pragmatica.  Mentre esalti P neghi che P possa sussistere.

(L’articolo è apparso sul Domani di oggi 9 febbraio – qui).

“Temo che il mondo non stia camminando come un sonnambulo verso una guerra più ampia, temo che lo stia facendo con occhi bene aperti”. E’ l’ultimo monito del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che evoca la minaccia atomica.

Il mondo? Chissà qual è il riferimento esatto di questa espressione. Mai come oggi decisioni di portata globale sembrano in mano ad alcuni leader che, per quanto potenti siano le forze cui rispondono, non ne sono certo private del libero arbitrio che li definisce persone umane. Esattamente come ciascuno di noi, compresi quelli che contribuiscono a formare l’opinione pubblica, a scrivere le leggi, ad approvarle. Consta ai più che lo stesso Guterres, e con lui tutti i decisori effettivi dell’ONU, non abbiano prestato ascolto né alle voci del diritto internazionale che suggerivano l’esistenza di clausole, nello Statuto delle Nazioni Unite, per aggirare i veto “in caso di stallo nel Consiglio di sicurezza” in funzione di iniziative di peace keeping, né agli appelli di centinaia di associazioni riunite sotto la bandiera di Europe for Peace, ultima la lettera allo stesso Guterres e alle altre autorità responsabili che cita l’Agenda politica per il Disarmo lanciata dall’ONU nel 2018.

E questi appelli, come le voci che salgono dagli esponenti della grande tradizione diplomatica italiana dei costruttori di pace, citate a più riprese da Mario Giro su queste pagine, salgono dal cuore stesso di quello che fu il progetto fondativo dell’Unione europea, nato dalla cognizione del dolore e volto a costruire nell’area europea un modello di democrazia sovranazionale in grado di prevenire, gestire e risolvere per le vie del diritto internazionale i conflitti tra stati e tra individui. Eppure l’attuale leadership dell’Ue pare non se ne ricordi affatto.

Ma allora, vi prego, non parlate del “mondo”. Non parlate a suo nome, soprattutto : che nome proprio non ha, e volto e mani. Vorrei che nascesse un segretariato mondiale della precisione a multare gravemente tutte le voci pubbliche che ignorano la responsabilità nell’uso delle parole, azzerandone il peso di verità. Perché una sola è la radice di logica ed etica : del rispetto tanto del peso di verità delle parole quanto della responsabilità personale degli atti, che è il peso della libertà. La scoperta di quest’unica radice si chiama filosofia, che o si rinnova ogni giorno o degenera in sofistica. E con lei degenera in vuota retorica quell’idea di Europa – o addirittura di Occidente – che ha provato a incarnare etica e logica nelle istituzioni dei diritti umani universali.

Che sciagura, allora, se “carico di filosofia” viene detto “questo scontro”. Se è un filosofo (Biagio de Giovanni, Corsera 8 febbraio) ad azzerare il peso logico delle parole descrivendo la guerra in atto come uno scontro fra “potere orientale”, questa “forza tellurica che non può incontrare la libertà”  e  “potere occidentale”, questo “continente della libertà”  che da troppo tempo vive il suo tramonto (copyright Oswald Spengler, mediocre bestseller del secolo scorso che nutre ancora i teorici dello “scontro di civiltà”, i neocon e purtroppo la politica estera americana corrente). Alle armi, Occidente !

Discutiamone : io lancio un solo guanto. Che cosa può intendersi per “libertà” se come andrà la storia non dipende da noi, ma dalle mistiche potenze della geopolitica ? E’ nullo il peso della libertà nel “continente della libertà” ? Se è nullo, allora è nullo anche il peso di verità delle parole che questa libertà conclamano. Quod erat demonstrandum.

Tags: , ,

6 commenti a C’entra con la guerra, la filosofia? Una risposta a Biagio de Giovanni

  1. domenica, 12 Febbraio, 2023 at 00:12

    La UE è entità politica sovrannazionale, per questo ha eliminato la guerra tra i propri Stati membri.
    Sul piano internazionale gli altri Stati sono ancora sovrani, possono farsi la guerra e il diritto internazionale non evita la guerra. Questi i fatti.
    La Russia ha attaccato l’Ucraina, un Paese che voleva entrare nella UE. Se la UE non avesse reagito (come dopo l’annessione della Crimea e del Donbas) ora l’Ucraina sarebbe sotto controllo della Russia, come la Bielorussia. È tutti gli Stati orientali dell’UE sarebbero a rischio. La sicurezza UE sarebbe a rischio. Non ci vuole molto a capirlo. Putin lo ha spiegato mille volte. La UE non poteva che reagire, per difendere la propria sicurezza. Come un qualsiasi stato. Questa diatriba sulla libertà non c’entra per nulla.

  2. Roberta De Monticelli
    domenica, 12 Febbraio, 2023 at 09:56

    Curioso ed estremo per disattenzione al contenuto dell’argomento, questo commento di Antonio Longo. Veramente estremo. Non mi resta che invitare Antonio a rileggere quello di cui parla, e cioè l’argomento di Biagio de Giovanni sull’inevitabilità di uno scontro di civiltà fra la tellurica Russia e l’Occidente “continente della libertà, e la mia replica al medesimo. E poi magari a frenare il carrarmato, per carità innocuo ma a volte sgradevole, della sua militanza (e delle sue risposte) a prescindere dall’argomento in questione.

  3. Marco di Feo
    domenica, 19 Febbraio, 2023 at 21:11

    Quando l’ombra del mondo cala su di noi.
    Il mondo cammina ad occhi aperti verso la guerra! La società ci opprime! I poteri forti cospirano alle nostre spalle! Questi sono solo alcuni esempi, tra i molti, di giudizi privi di fondamento, che chiamano in causa entità prive di consistenza ontologica. Questi giudizi attribuiscono a tali entità intenzioni ed azioni che in realtà solo soggetti in carne ed ossa, o autentici soggetti collettivi, possono maturare e compiere. Che cosa sarebbe mai questo “mondo” che cammina ad occhi aperti verso la guerra? Nulla di nulla. Il problema di queste affermazioni qualunquistiche consiste nel fatto che confondono la realtà e contribuiscono a deresponsabilizzare gli individui e le forze collettive che realmente potrebbero determinare le sorti della storia. La questione quindi non è solo ontologico-filosofica, ma è anche molto concreta e diventa perfino etica quando ha a che fare con temi come le scelte politiche, la guerra, il rispetto dei diritti umani, etc.
    La risposta di Roberta De Monticelli, che evidenzia appunto il funzionamento di un tipico ragionamento superficiale, cioè privo di fondamenti ontologici, invita a riflettere sulle cause di questa mancanza di senso della realtà.
    Certamente le motivazioni sono varie e possono interagire tra di loro consolidando quella visione delle ombre platoniche, che scorrono sul fondo della caverna (l’ombra del mondo che cammina verso la guerra atomica, ad esempio). Svuotamento di criticità, autenticità, e, più in generale, di quel senso di urgenza filosofica che impone di aspirare a contenuti veritativi e a nulla meno di questi. In superficie non resta che la tragica danza delle ombre della caverna. Gli idoli della mente (mondo, società, cospirazioni, destino, etc.) invitano ad accomodarsi nella quiete di un’ignoranza che resta ancorata a nuclei concettuali semplicistici, destrutturati di quella complessità che solo i fenomeni reali possiedono. Tra le molte ragioni di questa cecità intravedo l’incapacità sempre più diffusa (ma forse è da sempre così!) di sostenere il peso della propria libertà, che può essere autentica solo se porta con sé il carico della responsabilità. Moltissime persone la invocano, ma la maggior parte non comprende le profonde implicazioni di questa rivendicazione. Non si può essere liberi senza rompere le proprie catene, senza interrompere la quiete del proprio confortevole riposo. Molti invocano la pace, ma pochi sarebbero disposti a perdere la propria dimensione di vita agiata per una pace più estesa ed equamente condivisa. Allora, anche di fronte a questi macrofenomeni di portata globale, la forma primaria di resistenza (non unica evidentemente!) rimane ancora oggi l’educazione personale all’introspezione critica, che comincia con il mettere sul banco degli imputati le proprie convinzioni sterili e i propri idoli. Il punto è che siamo proprio noi a curare le nostre gabbie, a lucidarle con dedizione, come se fossero il luogo sacro della nostra identità. Siamo proprio noi la fonte della superficialità dominante, perché appunto non esiste una Superficialità che contamina il mondo, ma ci sono moltitudini di esseri umani e di collettivi che la coltivano e la diffondono. Anche il signor Antonio Guterres ha dato il suo importante contributo a questa disseminazione. Egli avrebbe dovuto invece richiamare l’attenzione sulle responsabilità di tutti, in quanto persone in carne ed ossa e in quanto cittadini di Stati che sono chiamati ad agire per la salvaguardia del bene comune. Cala invece su di noi per l’ennesima volta l’ombra fantomatica di un mondo che tutto parifica, confonde e omologa, riducendoci a ingranaggi di un meccanismo troppo grande, il cui processo appare troppo complesso e misterioso per essere governato. Ci dimentichiamo allora delle nostre reali responsabilità e diventiamo spettatori passivi. Ci dimentichiamo che prima di tutto dovremmo sollevarci dal nostro torpore e cominciare ad agire, anche se questo è l’esercizio più faticoso. Dovremmo accettare il rischio di perderci qualcosa, dimostrando che il bene comune è degno di questa prova di coraggio. Dovremmo sempre e di nuovo scegliere per che cosa valga la pena di morire, per cominciare a lottare per qualcosa per cui valga la pena di vivere. Tutto questo però non è semplice e, soprattutto (Platone lo aveva compreso molto bene), il prigioniero non può liberarsi da solo dalle catene dei suoi idoli. Ci vuole qualcuno che gli riveli le giuste motivazioni per venire allo scoperto. Ecco perché la filosofia ha sempre a che fare con tutte le dimensioni della vita umana, quella della guerra compresa. Questo è il suo compito fondamentale: alimentare sempre un pensiero critico, affinché i giudizi che determinano la storia siano radicati nella realtà e orientati al bene. Questo dovrebbe essere il compito prioritario di tutte e di tutti i filosofi, ovunque operino all’interno della polis. Nelle università, per chi ha il privilegio e la responsabilità dell’insegnamento, sui media, per chi ha la capacità di farsi ascoltare, nei luoghi di lavoro e della politica, per chi li anima, e nelle pieghe della quotidianità, con tutte le persone che si incontrano. Quando il pensiero critico incontra l’essere umano, prima o poi arriva sempre il momento della scelta: “Pillola rossa o pillola bue?”.
    (Cfr. Matrix: https://www.youtube.com/watch?v=ECamB0bcQsY&t=207s).
    La cosa interessante è che questo compito filosofico (il compito di Morpheus) diventa anche un esercizio permanente di attenzione e di auto-disciplina che tiene ancorato chi lo pratica alla complessità della realtà, senza farlo ricadere nell’oblio di Matrix (https://www.youtube.com/watch?v=d8xgGDIkKak). L’ancoraggio alla realtà e l’educazione al pensiero critico appaiono quindi come un lavoro perpetuo e una responsabilità reciproca. In sintesi, mi vengono in mente le parole di Platone: “La vera tragedia della vita è quando gli esseri umani hanno paura della luce”. Tragedia che non è mai solo personale, ma anche culturale, perché ogni persona che si rintana nella caverna è una risorsa in meno per l’intera collettività. Tragedia che non è mai solo cognitiva, ma profondamente pratica e concreta, perché appunto non esiste un mondo che pensa, sente e agisce, ma moltitudini di persone individuali che attraverso il loro pensiero, la loro sensibilità e la loro azione potrebbero fare la differenza. Tragedia che diventa politica, sociale e globale, quando i suoi artefici occupano ruoli di rappresentanza e sono chiamati ad esprimere giudizi in nome di intere popolazioni.

  4. Stefano Cardini
    lunedì, 20 Febbraio, 2023 at 10:30

    Ciò che mi colpisce degli “argomenti” di Biagio de Giovanni e di Antonio Longo, è l’uso enfaticamente retorico-metafisico del linguaggio nel primo (“forza tellurica che non può incontrare la libertà”) e quello astrattamente formalistico del secondo (“Sul piano internazionale gli altri Stati sono ancora sovrani, possono farsi la guerra e il diritto internazionale non evita la guerra”). Entrambi sembrano non avere compiuto alcuno sforzo nel ricostruire la storia che ha portato a questo conflitto dal 2008 (Conferenza di Monaco sulla Sicurezza) passando per il fallimento di Minsk II, fino al 24 febbraio 2022, che certamente non concede giustificazioni giuridiche al governo russo, ma al tempo stesso non può essere intesa come una marcia verso la libertà del popolo ucraino interrotta di colpo per “tellurica” volontà di potenza dalla Russia. Non difetta qui soltanto la logica, come giustamente rimprovera De Monticelli, difetta anche l’analisi storica e la capacità di informarsi sul dato presente e di interpretarlo, evitando di accomodarsi su una lettura di comodo funzionale alla propaganda. Guardiamo alla realtà, invece. A oltre un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, la guerra non accenna a frenare, contrariamente a quanto auspicato dagli interventisti più accaniti. Tutte le parti in causa hanno dimostrato di avere sbagliato le loro previsioni, come spesso accade quando prevale l’argomento bellico. Il conflitto si è trasformato in una guerra di posizione novecentesca: in trincea, casa per casa, strada per strada, corpo a corpo. In pieno inverno, la popolazione ucraina sta affrontando condizioni di vita sempre più insopportabili, al buio e al freddo nella carenza di gas ed elettricità. Le infrastrutture civili sono e restano nel mirino dell’esercito russo, come purtroppo sempre accade in guerra. Un’intera generazione ucraina viene macellata. Un Paese multi-etnico, multi-linguistico e multi-culturale si sta trasformando in una enclave nazionalistica economicamente e militarmente sussidiata tutt’altro che pluralista. Serviranno decenni e centinaia di miliardi per ricostruirlo, comunque, mentre il conflitto appare “congelato” in uno stallo sia militare sia diplomatico: non si registra alcuna iniziativa reale sul terreno né tentativi seppur effimeri di dialogo. L’unico intervento occidentale visibile rimane l’invio di armi sempre più offensive al governo di Kiev e il riarmo generale a discapito dell’economia civile, che diversamente dalla finanza ne soffre. Nel frattempo, la guerra non fa più notizia, l’overdose spettacolarizzata, polarizzante e superficiale dei media “alleati” cercano l’audience producendo shock che lasciano presto il posto alla noia. Il conflitto, tanto più è stato reso inizialmente “vicino”, tanto più ora è divenuto “lontano”. Si dice che l’invio di armi sempre più pesanti con rischio di escalation nucleare e il sostegno di intelligence è doveroso perché la resistenza del governo e del popolo ucraino, oltre che formalmente legittima, è unanime e sincera. Ma, come dicevo, questo modo di vedere le cosa prescinde completamente da un’analisi storica e politica dei motivi, giusti o sbagliati che siano, che hanno portato al conflitto e dagli obiettivi che perseguivano le parti in gioco. E dunque dalla responsabilità di cercare una soluzione al costo umano, politico, economico più basso innanzitutto per il popolo ucraino, ma anche per noi europei e italiani. Forse molti trovano “sconveniente” ragionare così, ossia politicamente. Preferiscono si continui moralisticamente e compulsivamente ad alimentare il conflitto lasciandone indeterminato l’obiettivo dietro formule illusorie o vaghe come “vittoria totale dell’Ucraina” o “non vittoria della Russia”. È, questo, parte del processo di spoliticizzazione della società, alla quale nel discorso pubblico non si prospettano più alternative tra obiettivi concreti plausibilmente perseguibili, bensì tra opinioni o meglio semplici “stati d’animo”. Così, non si pensa e non si agisce più come un corpo politico almeno tendenzialmente razionale, ma come un’onda d’opinione che va e viene su impulso dei media, gratificando quelli che si credono i propri “sentimenti estetici e morali”, che di estetico e morale in realtà hanno ben poco. Volendo rimanere capaci di deliberazione politica razionale, invece, sappiamo benissimo che ogni morto in più da entrambe le parti le costringe ad alzare irragionevolmente la posta in gioco, proclamando obiettivi sempre più irraggiungibili. Così, una soluzione di compromesso come Minsk II, che a suo tempo era sembrata a portata di mano, è stata trasformata in un miraggio. Non resta, quindi, che puntare a un tregua militare con una margine smilitarizzato oltre il Dnepr a seguito di seppur temporanee concessioni, anche di tipo territoriale. L’argomento in base al quale “spetta all’Ucraina decidere” è semplicemente ridicolo: sappiamo benissimo che quella decisione dipende dal sostegno o meno della Nato, militare e politico. Se invece si ritiene di proseguire sulla strada intrapresa per alate ragioni di “civiltà” o di “diritto”, ci si deve fare carico politicamente e moralmente di tutto il male che ne viene e ne verrà, non soltanto per il popolo ucraino – di tutte le etnie e di tutte le lingue – ma anche per il destino dell’Europa, che sfido a sostenere ne stia traendo un qualche beneficio a breve o a lungo termine. Qualcuno si sente seriamente più al sicuro con una guerra imperiale a bassa intensità divenuta una guerra “grande”, oltreché civile, ad alta intensità che s’allarga nel cuore del nostro Continente?

  5. Marco di Feo
    mercoledì, 22 Febbraio, 2023 at 00:42

    “Un Paese multi-etnico, multi-linguistico e multi-culturale si sta trasformando in una enclave nazionalistica economicamente e militarmente sussidiata tutt’altro che pluralista”.
    Della dettagliata e lucida analisi di Stefano Cardini sottolineo questo passaggio, che sembra sfuggire ai più e in cui si annunciano i prodromi di una futura riconfigurazione geo-politica, che potrebbe diventare estremamente critica per l’intera Europa. Se fino ad oggi, nel suo pluralismo multiculturale, l’Ucraina rappresentava una sorta di cuscinetto politico e culturale tra l’area occidentale di sperimentazione democratica e le aree geo-politiche nazionalistiche d’oriente, un domani questo Paese potrebbe uscire dal suo martirio consolidando la sua identità intorno a nuclei identitari iper-nazionalistici. Il Paese che oggi viene giustamente considerato vittima di questa violenta aggressione militare, domani sarà “giustamente” legittimato nelle sue pretese di risarcimento. L’Ucraina potrebbe allora presentare all’Europa e non alla Russia un conto inestinguibile. Un conto che si potrebbe tradurre nella richiesta di un ampio spettro di legittimazioni “incondizionate”. I risarcimenti della seconda guerra mondiale insegnano. Chi oserà allora discuterle? Chi farà obiezione non verrà etichettato come Stato non allineato, pericolosamente ammiccante verso Oriente? Proprio come avviene oggi per quelli che invocano un tavolo di pace, che inevitabilmente deve prendere in considerazione le illegittime rivendicazioni dell’aggressore russo. Potremmo allora ritrovarci tra gli Stati dell’Unione europea un nuovo membro, intoccabile, militarizzato, forgiato dalla guerra e legittimato a porre in scacco l’intero processo democratico. Potremmo così ritrovarci vincolati e ricattati da un polo iper-nazionalistico incompatibile con le radici dell’Europa. Chi pensa che l’unica via sia la prosecuzione della guerra attraverso il continuo rifornimento di mezzi militari non si accorge che ogni giorno e mese che passano stanno scavando il solco di queste radici. Quello che conta oggi non è più vincere questa guerra, obiettivo che per altro sembra irrealizzabile per entrambe le parti. Oggi conta solo interrompere questo conflitto, riallacciare i rapporti diplomatici e riprendere immediatamente la ricostruzione dell’Ucraina. Occorre farlo al più presto, anche a costo di cedere a qualche illegittima pretesa territoriale dell’aggressore. Occorre chiudere con una sconfitta moderata, piuttosto che arare il terreno in cui seminare un futuro potenzialmente ancora più oscuro e pericoloso. Occorre inoltre che l’Ucraina resti neutrale tra le due macro aree geo-politiche e che venga incentivata a consolidare tale status, un po’ come avvenne per la Svizzera nel 1815, con il Congresso di Vienna. Condizione di cui alla lunga il popolo elvetico ha per altro beneficiato. Si dirà, accusandomi, che tale proposta non tiene conto degli interessi e della volontà del popolo ucraino e che propone una risoluzione vantaggiosa per tutti, tranne per il Paese aggredito. Rispondo prima di tutto con una constatazione banale, ovvero con il fatto che del cessate il fuoco ne beneficerebbero tutti, nessuno escluso. Non di meno, riconosco che tutto sommato questa accusa ha un fondamento di verità. È vero, un tavolo di pace oggi finirebbe per penalizzare proprio l’Ucraina che vogliamo difendere e sostenere. Occorre però anche ricordare e ricordarci che il nostro ruolo primario non è difendere l’Ucraina, ma la pace mondiale, senza la quale nemmeno questo popolo ingiustamente aggredito avrebbe un futuro. Si tratta di due scopi giusti e legittimi, ma subordinati e come tali devono essere trattati. L’evidenza di questa priorità è talmente lampante da poter apparire perfino banale, ma intanto passano i mesi, si moltiplicano le vittime, si incrementa il rischio di un conflitto mondiale e si seminano i germi di un futuro potenzialmente drammatico, soprattutto per l’Europa.

  6. mercoledì, 22 Febbraio, 2023 at 01:09

    Condivido la maggior parte dei punti degli argomenti precedenti. E soprattutto il richiamo alla storia che ha portato alla situazione attuale, almeno a partire dalla Conferenza di Monaco del 2008, ma direi da prima, dalla sequela di entrate nella NATO di Repubbliche ex-sovietiche nei tardi anni ’90 (contro gli impegni presi con Gorbaciov ancora al potere). Per una sintesi estremamente ben fatta di questa storia, comprese interviste con gli advisers americani di allora, si può recuperare la puntata di Report di ieri 20 febbraio: https://www.raiplay.it/video/2023/02/Costruttori-di-pace—Presa-Diretta—Puntata-del-20022023-818b2435-58d5-4662-b106-4764c5e90dda.html

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


*