Dove va la scuola? Probabilmente dove va la società. Spunti di discussione

lunedì, 5 Settembre, 2011
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Lo sanno tutti ormai che Internet sta entrando ed entrerà prepotentemente nel mondo dell’istruzione scolastica e in quanto sistema di trasmissione di informazioni e sapere nel processo educativo in generale. Quando si parla di una scuola aggiornata e competitiva il luogo comune è proprio  quello di pensare immediatamente alla disponibilità di computer e alla rete nelle aule scolastiche. Le lavagne interattive multimediali sono già entrate in molte classi e i prof si affannano un po’ fra la lezione frontale tradizionale e i comandi non sempre agevoli di questi display giganti. Per gli studenti internet applicata allo studio significa ricerca su Google. Si clicca con grande rapidità, una scorsa veloce all’offerta, troppo veloce, si scarica, si copia, si incolla. A casa è diverso perché si naviga sui siti di proprio gradimento ma il meccanismo di base è lo stesso, insieme al vissuto, con  tutta la sua dimensione cognitiva ed emozionale. La scuola si adegua  per osmosi alla società. Eppure molte ricerche sperimentali accreditate nel dominio delle neuroscienze ci  avvertono che bisognerebbe limitare l’esperienza digitale nella scuola, già così massiccia in termini di ore a livello domestico e nel tempo libero. What is Internet doing to our brains? Is Google making us stoopid? La risposta a queste domande famose sul web rappresenta un po’ iperbolicamente la nemesi culturale e cognitiva che attraversa e che attende tutta la nostra società. Un movimento che si sviluppa superficialmente verso trasformazioni cognitive e culturali sempre più indifferenziate, caratterizzate dalla univocità, uniformate, globali. Da numerose  ricerche emerge che quando siamo online si rinforzano i circuiti neurali che usiamo per analizzare superficialmente e rapidamente grandi quantità di informazioni, e si indeboliscono quelli che ci permettono di capire a fondo ciò che stiamo leggendo. Stando a queste ricerche della Stanford university e poi  Chicago, University of California ecc.  si diventa progressivamente incapaci di concentrazione e di pensiero profondo.  Il cervello si abitua ad un processo di attenzione dal basso dove ogni minimo stimolo diventa importante e la scelta sulle cose da osservare, ignorare, cliccare diventa sempre meno consapevole e più rapida. Si scende insomma sotto il livello di coscienza, lo stesso livello che si attiva nei veloci videogames dove le decisioni vengono prese, come ha mostrato anche Libet in Mind Time (2007), di molte frazioni di secondo sotto il livello della coscienza modularizzata anche in termini culturali, critici, morali. E’ vero che Internet sviluppa buone capacità visuali e spaziali ma a spese delle capacità di acquisizione di conoscenza, riflessione, immaginazione. Per molti giovani Google é il sapere e l’informazione in un click. Lo sanno bene i suoi operatori, il suo scopo è attrarre velocemente l’utente sul maggiore numero di pagine per poi mandarlo via altrettanto rapidamente. Google monetarizza i nostri click con i suoi sistemi di advertising. Sono tante le decisioni da prendere durante la navigazione e queste minano la nostra concentrazione. Gli ipertesti zeppi di link sono l’esempio emblematico di questa dispersione e distrazione costante. Eppure quante volte a scuola avremo sentito parlare della creazione di un ipertesto come del più ambizioso ed eccitante dei traguardi per un gruppo di  studenti o di un progetto. Internet disallena i circuiti collegati alle forme di pensiero più profonde per privilegiare quelle che consentono di raccogliere informazioni in modo superficiale. Sembra che immergersi in questo flusso a volte caotico di informazioni-distrazioni – si pensi ai social network – abbia un risvolto emozionale preciso, quello di non farci sentire isolati. Ecco allora che i nuovi media sembrerebbero assolvere ad una funzione essenzialmente emozionale compromettendo le aree più “nobili” dei sistemi cognitivi umani.

E’ questo il nodo cruciale, a mio avviso, che deve ricevere molta attenzione e che si osserva costantemente nel processo educativo che interessa un giovane sia sul piano emotivo che razionale e cognitivo. La difficoltà nella concentrazione, nell’approfondimento, nella ricerca, nel problem solving profondo, nell’azione riflessiva e non compulsiva. Purtroppo è solo una metà del problema perché il diffondersi dei nuovi media nella società e nella scuola assomma le sue conseguenze negative con un offerta formativa in termini di istruzione scolastica ormai troppo vasta, frammentaria, caotica dove si cerca di inseguire un’ impossibile completezza di contenuti aggiornati che spaziano sopra troppe materie. Alla dispersione di aggiunge altra dispersione con l’avvicendarsi continuo di nuovi docenti sulle classi, di metodi di lavoro non omogenei. Non dimentichiamo che nella scuola italiana, oggi più di ieri, un insegnante insegna come gli pare e come può, come ritiene più opportuno, come non sa o pensa di sapere, perché non è mai stato sottoposto a un training, formato e  preparato per insegnare seguendo delle metodologie precise. Quello della presunta libertà dell’insegnamento e della sua autonomia è una questione delicata che non può più essere procrastinata. Gli insegnanti devono essere formati, controllati e valutati nel loro operato. Dobbiamo renderci conto che siamo ancora all’improvvisazione. Di questo possiamo ringraziare anche il perdurare di spesso generiche pedagogie che non raggiungono mai il necessario livello di chiare prescrizioni, metodologie e tecniche di insegnamento. Ma anche per mancanza di coraggio nelle scelte politiche e culturali, e come si può facilmente immaginare per non perdere consenso. E poi ci sono gli assetti normativi interni che continuano a cambiare inspiegabilmente di anno in anno ma che non portano quasi mai nulla di autenticamente innovativo e migliorativo nella didattica. Materie d’insegnamento che appaiono ormai residuo di un lontano cretaceo, complessi calcoli matematici, quando si fanno, che risultano ancora di più inaccettabili al tempo delle memorie di terabyte. In questa complessità di contesti e sistemi che produce sempre più entropia, disordine e insoddisfazione, complessità che qui si può solo sfiorare, il problema, oggi, ipersemplificando, è togliere o sostituire ma non aggiungere. Noi dovremo vivere per lungo tempo nella era dei tagli. Amari scherzi a parte è triste ammettere che se questi tagli ci sono stati, e  ci sono stati, sono tagli sostanzialmente in termini di bilancio, circa 8 miliardi in meno nella scuola, che prevedono come necessaria conseguenza anche una leggera riduzione del monte orario settimanale scolastico.

Si tratta ora quindi di intervenire con delle vere riforme “culturali” e didattiche. Ritengo che è sul problema di come riportare capacità di concentrazione nella mente dei giovani che va compiuto il primo massimo sforzo. Ma anche sulle soluzioni per arginare il disorientamento e le difficoltà psicologiche e sociali di un’adolescenza sempre più fragile, complessa, disorientata. Non solo istruire ma ri-educare all’ordine mentale, alla creatività, alla profondità, alla ricerca, alla concentrazione, al controllo dell’ansia, al superamento dell’ipercineticità mentale del multitasking socio-digitale. Pubblicità e media premono da anni esclusivamente sulla componente emozionale dell’esperienza, del vissuto, favorendo le scelte e i comportamenti compulsivi, arazionali e puntando sulle tante forme di illusione cognitiva. Condivido quindi quello che scrive Marco Lodoli su Repubblica quando esorta ad una scuola che educhi al pensiero razionale, logico-scientifico e al controllo consapevole delle emozioni. Il comportamento e il pensiero razionale difficilmente possono condurre a scelte amorali, individualistiche o contro la comunità. Educare invece alla valutazione morale del comportamento o a letture valutative della storia rischia soltanto di determinare superficiali ma insormontabili dissonanze cognitive immediate nei giovani e a stimolare immotivate adesioni ideologiche.

Le conseguenze indesiderate di questa complessità sistemica sono evidenti. La compulsività già marcata nell’esperienza giovanile si accentua esponenzialmente e questo si evidenzia nella scrittura e nel linguaggio, nella comunicazione che appaiono sempre più disordinati, logicamente sconnessi, ripetitivi, ma soprattutto stereotipati. Ma non si tratta di impartire più ore di sintassi o di lettere come comunemente si sente predicare. Instabilità emotiva e disorientamento culturale sono due fenomeni chiave che riassumono meglio il vissuto adolescenziale, due fenomeni in accentuazione costante. Una delle risposte difensive più diffuse dell’adolescente e del preadolescente è l’adesione passiva ai luoghi più comuni della comunicazione mediatica. Come si dovrebbe quindi facilmente vedere non è tanto o non solo un problema di quali contenuti andare ad insegnare ma piuttosto di metodi e scelte nelle strategie didattiche di insegnamento e di studio, di presentazione dei contenuti, di atteggiamento psicologico e cognitivo che deve essere tenuto dal docente in classe e sviluppato o potenziato negli studenti. Se c’è qualcosa da aggiungere o sostituire ai curricula scolastici allora si tratta anche di discipline psico-fisiche che promuovano la concentrazione mentale e la consapevolezza corporea. In Francia e negli Stati Uniti, sulla scia delle ricerche che ne attestano i grandi benefici, si stanno introducendo oltre a materie socio-psicologiche e ad alta interdisciplinarità scientifica, le tecniche di meditazione, il rilassamento, lo yoga, a cui si dovrebbero aggiungere anche la pratica dell’osservazione sperimentale analitica e la contemplazione estetica guidata. Insieme al potenziamento delle forme di ragionamento logico e spaziale, potenziare la pratica dell’ascolto prolungato senza reazioni emotive immediate compulsive e avversative, la comunicazione tollerante, le tecniche di decentramento empatico, in sintesi spingendo su un insegnamento più “freddo” ma empatico, non emozionale come invece amano fare molti insegnanti per accattivarsi la simpatia degli studenti. Questo allo scopo di depotenziare la centralità narcisistica dell’individuo sempre molto forte nelle culture del sud Europa, a tutto scapito del ben noto senso civico e della collettività a cui si appartiene. (continua?)

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8 commenti a Dove va la scuola? Probabilmente dove va la società. Spunti di discussione

  1. Claudio
    martedì, 6 Settembre, 2011 at 12:19

    cit:” le tecniche di decentramento empatico…”

    Non penso che sviluppare empatia nella propria personalità possa pregiudicare lo sviluppo cognitivo e il controllo emozionale, parlo ovviamente a titolo personale, anzi, il mio grado di empatia (con le persone, l’ambiente circostante, …) è un’aiuto prezioso,perchè mi consente di capire meglio quello che mi circonda, di essere in sintonia con quello che mi circonda.

  2. Carlo Conni
    mercoledì, 7 Settembre, 2011 at 11:38

    Gli studi sul comportamento pro-sociale oggi comprendono ricerche sull’altruismo, sul comportamento d’aiuto, di cooperazione e di riguardo verso gli altri; tutti comportamenti intesi come azioni volte al fine di proteggere, favorire o mantenere il benessere non solo di un determinato soggetto sociale ma di un’intera comunità. Con decentramento empatico in questa prospettiva dobbiamo proprio intendere una capacità cognitiva nei confronti dell’altro, cioè a percepire i bisogni dell’altro, ad assumerne le prospettive, a viverne le emozioni e a reagire emotivamente in congruenza con la situazione. Si può anche sostenere che esiste un’empatia focalizzata su se stessi oltre che una centrata sull’altro. Nel primo caso si richiede uno sviluppo notevole della propria capacità cognitiva ed un esame accurato di quelle persone, giovani, che pur in difficoltà ad esempio rifiutano l’aiuto, perché lo considerano come una minaccia alla propria autostima, specie quando non sono nella possibilità di ricambiare, possono vedere l’aiuto come un segno di inferiorità dentro un rapporto che crea e mantiene dipendenza. Il comportamento definito pro-sociale ma anche il comportamento di aiuto oggi sono fortemente compromessi soprattutto nei grandi centri urbani. La capacità di decentramento si acquisisce a partire dalla consapevolezza dell’esistenza dell’altro tramite il superamento del proprio punto di vista come unico punto di osservazione della realtà. Empatia è in fondo solo un altro nome per intendere coscienza e consapevolezza. Significa riconoscere l’esistenza di concezioni del mondo diverse dalla nostra e di una molteplicità di approcci e di punti di vista, avere un atteggiamento empatico verso gli altri, essere disponibile a mettersi in gioco, a confrontarsi a modificare i propri comportamenti. Tutti questo potrebbe essere anche collegato alla meccanica quantistica ma forse, no senza forse, sarebbe decisamente lungo e complicato da spiegare…. 🙂

  3. Carla Poncina
    giovedì, 8 Settembre, 2011 at 17:50

    “Dove va la scuola? Probabilmente dove va la società”, scrive Carlo Conni, e a questa domanda seguono poi una serie di considerazioni assai ricche e complesse, cui mi è difficile dare seguito. Mi limito pertanto a soffermarmi su pochi punti, lasciando per ora da parte la riflessione sulle nuove tecnologie entrate prepotentemente nella vita di (quasi) tutti e ora naturalmente anche nella scuola.
    Il primo riguarda il peculiare tipo di rapporto tra presente e passato che caratterizza il mondo della scuola, da sempre luogo specifico della trasmissione di conoscenze salde e pur tuttavia malleabili, disponibili a riflettersi via via nei tempi nuovi che si avvicendano. Utilizzo parole e immagini di chi mi ha tanto sollecitato nel mio lavoro di insegnante: George Steiner. In un breve saggio su quello che io amo chiamare il “mestiere” di insegnare (MicroMega 3/2003) scrive: ”I più importanti pensatori e poeti scrivono lettere. L’insegnante, l’interprete è il postino (in italiano nel testo), colui che fa del suo meglio per recapitare le lettere nelle giuste cassette della posta. Un mestiere senza pretese […] ma forse il più bello che ci sia.”
    A me piace moltissimo l’immagine del postino, ma spesso quando l’ho riproposta a colleghi o aspiranti tali li ho visti assai poco entusiasti. Si sentivano poco gratificati dall’umile metafora. Ma così non è. Lo conferma la successiva citazione di Steiner, che ricorda Dante, il quale rivolgendosi nel canto XV dell’Inferno al suo maestro Brunetto Latini lo indica come colui che gli insegnò “come l’uom s’etterna”. Il lavoro è modesto e richiede umiltà, ma ciò che si veicola è prezioso, forse indispensabile per la realizzazione di chi lo riceve. Aggiungo solo che c’è qualcosa di ineliminabilmente socratico nel mestiere di insegnare, e chiunque aspiri a fare questo lavoro ne deve essere consapevole. Questa stessa idea l’ho trovata in un autore lontanissimo dal brillante cosmopolitismo di Steiner, Augusto Monti, mitico professore del liceo D’Azeglio di Torino, che con lo stesso spirito, in un saggio sulla scuola, spiega come il docente deve “far fruttare la notizia dell’antico mediante la storia, la filosofia e l’esperienza del presente.”
    E a proposito del tema eterno del rinnovamento della scuola, nuovamente in due autori così lontani ho trovato posizioni assai simili. George Steiner scrive che “per essere originali non c’è che da tornare alle origini” (Errata). Gli fa inconsapevolmente eco Augusto Monti: bisogna “rinnovare la scuola col ritornare alla tradizione”. Quale tradizione? Quella che insegna attraverso i classici “ a vivere ora nel tempo nostro come vissero essi allora nel tempo loro, cioè aderendo al proprio tempo con tutto l’essere proprio, vivendo con l’intiera pienezza la propria vita.” Non sono solo parole quelle di Monti, poiché sappiamo come lui stesso e i migliori dei suoi discepoli hanno agito durante il fascismo e la Resistenza. E per puntellare la mia debolezza mi appoggio ad un’altra auctoritas, H. Arendt e alla sua idea della filosofia come “pensare il presente”, alla sua sollecitazione al Selbstdenken, quel “pensare da sé” considerata come l’attitudine fondamentale da costruire in ogni singolo individuo, sola arma contro società omologate se non totaliatarie.
    Il termine “filosofia” in questo contesto deve riappropriarsi della completezza che lo connotava originariamente. Sapere scientifico e sapere umanistico non vanno assurdamente contrapposti come purtroppo si usa fare, sono parimenti essenziali. Dico questo perché ancora recentemente ho visto riaffiorare il tema della necessità di accrescere le ore di materie scientifiche nella scuola. Assolutamente d’accordo, tagli della Gelmini permettendo. Purché si sia consapevoli di quanta creatività, passione, gusto per la bellezza ci sia nella produzione di grandi matematici e fisici, e di quanto rigore, logica, controllo delle emozioni nei versi di Leopardi, nei quadri di Piero della Francesca, nelle opere di Calvino o Primo Levi.
    Ancora i versi di Dante a soccorrermi: “Amor che nella mente mi ragiona” canta. E altrove invoca: “Donne ch’avete intelletto d’amore”. Il nesso amore-intelletto costituisce un ossimoro? Se anche fosse si tratta di un ossimoro estremamente fecondo.
    La contrapposizione ragione/sentimento è del resto molto recente storicamente; da Platone a Spinoza, passando per Agostino e Machiavelli è la “passione intellettuale” all’origine delle più grandi realizzazioni.
    Da questo punto di vista siamo ancora in gran parte vittime della distorsione romantica che ha contrapposto erroneamente la fredda ragione al calore dei sentimenti.
    Per questo l’altro aspetto su cui si è intervenuti, la necessità o meno per l’insegnante di coinvolgere emotivamente gli alunni, mi sembra costituisca un non-problema. L’importanza del coinvolgimento emotivo nell’apprendimento è ormai scientificamente dimostrato. Del resto già Eschilo, nel coro iniziale dell’ Agamennone, canta il sapere che s’impara col dolore: tòn pathei mathos….
    Ricordo anche il ponderoso saggio della Nussbaum : “L’intelligenza delle emozioni” (Mulino 2004). Su questo punto non credo ci sia da dibattere.
    L’agonia odierna della scuola dipende non solo dalla sconsiderata e feroce politica della Gelmini, ma dal ripiegarsi su luoghi comuni. Il suo rilancio non potrà darsi che a partire dalla consapevolezza di ogni insegnante e di ogni alunno di quanto sia prezioso per sé e per gli altri il quotidiano lavoro a scuola.
    Quanto ai nuovi mezzi informatici, essendomi troppo dilungata aggiungo solo una ovvia considerazione. Questi mezzi meravigliosi per velocità e ricchezza produrranno stupidità se stupidamente usati, potranno allargare ed arricchire il vasto campo del sapere se utilizzati con intelligente consapevolezza da docenti e studenti. Ma l’esigenza prima della scuola resta quella di insegnare a pensare, a riflettere, a confrontare e condividere il proprio mondo con quello di chi ci vive accanto. E’ essenziale trasmettere il “piacere” di ragionare con la propria testa, l’amore per la cultura, la passione civile. Condividere un’idea alta, “necessaria” della politica. L’opposto del cieco individualismo e dell’anti-politica profusi a piene mani in questi ultimi, tristi anni.
    “Il mio mestiere, la mia disciplina è di pensare” sostiene ripetutamente Hannah. Arendt “. Valga per tutti noi. Selbstdenken non è l’attività di un singolo chino sulla propria identità, ma sta a significare l’autonomia, la libertà di un pensare da sé, “senza balaustre”, senza sostegni interessati. Un pensare da sé che proprio in quanto tale può dialogare con altri, purché pure gli interlocutori non siano viziati da pregiudizi e ideologie, siano in definitiva “liberi”.

  4. Fortunato Aprile
    venerdì, 9 Settembre, 2011 at 08:37

    Sarebbe davvero uno spreco non riflettere ancora su almeno alcune delle molteplici questioni di cui è ricco l’articolo di Conni: una illuminante rassegna dei mali di cui è afflitta la scuola, dai quali emergono reali dimensioni di problemi di carattere epistemico. Semplificando estremamente il discorso, potrei dire che il prevalere nelle prassi scolastiche della iperattività compulsiva, l’avvicendarsi di metodi non omogenei e di metodologie dovute più al caso che derivate da solide concezioni pedagogiche, ed altro ancora, assimila la sua analisi a quella che nel mio articolo chiamo, nei termini di Varela, la struttura preventiva. Quando poi perora un’inversione della mania aggiuntivistica, togliendo e, dunque, non aggiungendo, pone una importante questione che -appunto- richiede metodo. O, meglio, richiede una metodologia generale per l’elaborazione del curricolo. Insomma, con quali criteri si deve togliere o aggiungere? Per esempio: Conni abbozza una pragmatica di bisogni formativi da aggiungere e lo fa da una prospettiva di persona colta e di civiltà. Tali bisogni sono la concentrazione mentale e la consapevolezza corporea, un’alta interdisciplinarità scientifica, le tecniche di meditazione, la pratica dell’osservazione sperimentale analitica e la contemplazione estetica guidata, il ragionamento logico e spaziale, il potenziare la pratica dell’ascolto prolungato senza reazioni immediatamente avversative, la comunicazione tollerante, le tecniche di decentramento empatico. Insomma perora l’avvento di un insegnamento più “freddo” ma empatico, non emozionale. A parte la questione ragione-emozione e dell’ insegnamento freddo, le petizioni aggiuntive di Conni, a ben vedere, non sono assenti in quella normativa pure continuamente cangiante della riforma che riforma quanto riformato, ma mai attuato. E’ che è dominante, nei docenti e nei dirigenti, il sistema delle pre-comprensioni spontanee, talora anche furbescamente assunte. Il che offusca, per dirla con le parole di Searle, <> (2003, p. 159). Perché? Perché bisogna pur vivere, se chi deve organizzare training formativi dei docenti non lo sa fare e non aiuta a costruirsi quella metodologia di civiltà. Ovvero, di coerenza con le finalità presenti nelle Indicazioni per il curricolo. Invito tutti a leggersi le Indicazioni vigenti, per la scuola di base, redatte sotto la guida di Ceruti ed Edgar Morin per chiedersi poi se non valga la pena di impegnarsi a far prevalere lentamente la struttura enattiva, quella che costruisca le pratiche didattiche a partire da quelle indicazioni, attuandole nell’equilibrio di ragione ed emozione, ma anche nell’equilibrio di ragion pura e di ragion pratica. La sola razionalità, come la sola eticità hanno costruito campi di concentramento e gulag. Nei termini di Varela, ma anche di Maturana e di Morin, senza etica non si va da nessuna parte, purché la sua applicazione sia percettivamente guidata dall’azione, ovvero da quei processi autopoietici di realizzazione di progetti di esistenza. Nel nostro caso, alla luce delle finalità istituzionali. In tale ottica, assumerebbe un diverso significato la questione della valutazione morale, che è sempre a rischio di ideologia. Dunque, è inevitabile navigare tra gli scogli di Scilla e quelli di Cariddi, se si vuole sortire dalla replicanza e iperattività compulsiva. Forse quest’altro mio intervento non era del tutto necessario dal punto di vista dell’aumento delle conoscenze, ma lo è certamente per cercare di far lievitare la prospettiva di civiltà posta da Carlo Conni.

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  5. Carla M. Giacobbe
    venerdì, 9 Settembre, 2011 at 11:32

    In un certo senso l’articolo di Carlo Conni, oltre che ricco di notizie, è spronante. Perché salta a piè pari le considerazioni sulle gravi lacune attualmente presenti nel sistema scolastico, per parlare di cosa, in una scuola dalla struttura quantomeno sana, converrebbe migliorare. Difficilmente durante la lettura sono riuscita a smettere di pensare a quanto già delle solide basi possano fare in questo discorso: a quanto mi auguri che i prossimi tirocini formativi abilitanti, dall’accesso estremamente elitario (per dirla con un eufemismo) forniscano una valida preparazione ai futuri docenti, gli diano delle basi per rendersi saggi e oculati postini (bella metafora!) e dei limiti entro i quali sviluppare un proprio stile d’insegnamento (cosa sacrosanta!), più di quanto la preparazione universitaria dettata dai piani ministeriali faccia; a quanto speri che la qualità del lavoro di questi docenti possa essere resa migliore dalla stabilità degli incarichi e da migliori condizioni lavorative, e dalla compattezza di una scuola vigile sul singolo operato; e a quanto dopo questi gran tagli, speri che siano messe in buone condizioni altre aule, prima di quella informatica! Ma detto questo, l’aggiornamento della scuola, decisamente nella stessa direzione della società, è un argomento fondamentale e trascurato (e di maggior respiro!), e l’abuso del computer nell’era di facebook e wikipedia sortisce effetti tanto forti e significativi da necessitare assolutamente di una controtendenza…magari si inserissero qui le discipline introdotte in Francia e in America! Ma l’insegnamento scolastico di un uso più proficuo del computer è a mio parere da limitare ad un paio d’ore settimanali e non di più, e non per sembrare antica o “luddista” ma non vedo cosa le vecchie lavagne abbiano in meno degli agili schermi sostitutivi, laddove non ritengo necessari i power point a spiegare nulla che non possa, con più spazio all’interpretazione, spiegare il gesso, o il gesto. Da questo iperstimolo salvaguarderei l’alunno, non da quello della spiegazione ad alto impatto emozionale di un insegnante, che rende indelebili dalla memoria alcune lezioni (per quanto forse sia prevenuta verso questa didattica empatica, per poca conoscenza!), né condannerei più di tanto i tentativi di un professore di accattivarsi le simpatie, che se non usa un umorismo “ideologico” al quale si aderisce un po’ troppo rapidamente e con troppo poca comprensione, ha tutto il diritto di conquistare alunni, per cui non raramente di questi tempi può diventare un punto di riferimento alternativo alla famiglia. Come non è più il caso di parlare di cuore e ragione in scienza e in filosofia, non è probabilmente necessario fare un dualismo troppo netto neanche tra emozione ed empatia…visto che comunque si tratta di una forma di ascolto senza pregiudizi, e comunque di una condivisione, e con supposte finalità pro-sociali. Ma come perseguirla a scuola, senza limitare espressioni di docenti e alunni?

  6. Carlo Conni
    venerdì, 9 Settembre, 2011 at 15:50

    Se è dalla realtà culturale e sociale italiana che si deve partire allora ci sono delle priorità che devono essere perseguite prima di passare ad altri obiettivi. Una di queste è l’educazione al rispetto delle regole, l’educazione alla legalità, educazione al rispetto degli altri e della collettività, educazione al lavoro nel gruppo, nella comunità, educazione al team, al sociale, alla città come collettività, alla dimensione urbana dell’individuo contemporaneo come parte da integrarsi in un intero. A mio avviso questa oggi è una assoluta priorità. Non si raggiunge questo obiettivo solo leggendo la costituzione in classe o i grandi classici latini, ma frenando le pedagogie e quegli stili educativi che alimentano l’individualismo e la ricerca del soddisfacimento immediato dei bisogni e dei desideri. La famiglia italiana è assai debole su questo versante e la scuola deve compensare. E’ in questa luce che deve essere letta la mia distinzione fra una cultura delle emozioni e l’empatia. Il piacere del vissuto emozionale è in ultima analisi centrato su strutture fortemente egoistiche. L’empatia evidentemente no perché ci apre all’ascolto degli altri, delle loro esigenze e al rispetto. Riportare fiducia verso l’altro, indebolire la cultura della diffidenza e del sospetto praticando i gruppi di comunicazione e le strutture seminariali già nelle prime classi delle superiori. Introdurre lo studio della psicologia e delle scienze sociali e cognitive in ogni ordine di scuola. Negli Stati Uniti hanno posto come obiettivo formativo primario la capacità di lavorare in team. Se andiamo a valutare la scelta degli assi culturali operata dalla riforma in Italia ritroviamo le solite contrapposizioni culturali fra scienza e cultura umanistica, fra ragione e sentimento, un dualismo imperante che rischia di produrre solo una educazione alla furbizia o all’ingenuità. L’illegalità prospera nelle culture individualistiche e dualistiche. Oggi le agenzie formative non sono più quelle del passato ovvero la famiglia, lo stato e le istituzioni, i partiti, la chiesa. La principale agenzia formativa dei giovani sotto il profilo psicologico e sociale è la realtà mediatica, se si esclude il gruppo dei pari. Dall’infosfera alla comunicazione mediatica, intrattenimento, pubblicità, viviamo una realtà segnata dalla ricerca del vissuto emozionale indifferibile nel tempo. La cultura del fast, del life is now, dell’Io valgo, ha generato quelle nuove forme di populismo che vedono le esigenze – o meglio un ventaglio di desideri e aspettative implausibili dei singoli individui sulla propria vita – non sommarsi ma scontrarsi fra di loro in un campo di repulsione immediato di emozioni e non in una struttura di relazioni interpersonali e sociali come lo è una comunità. L’incontinenza, l’incapacità di sopportare responsabilità, l’incertezza, la fuga, e tutte le varianti della liquidità sociale contemporanea sono le conseguenze della rappresentazione della realtà creata dai nuovi media. I giovani oggi vivono fra un mondo di aspettative allettanti, illusorie e narcisistiche create dai media, e destinate ad essere frustrate, e una realtà sociale ed economica di grande declino che genera sofferenza e incertezza. Educare al rispetto delle regole e alla fiducia nella collettività è educare alla consapevolezza dei limiti, alla continenza, è un’educazione morale e pragmatica allo stesso tempo, è un’educazione a vivere nel gruppo, all’appartenenza all’intero sociale, a cogliersi come parti non indipendenti di strutture sociali ed economiche che ci accolgono preformate fin dalla nostra nascita, è un’educazione ecosistemica, un’educazione all’essere parti di un ambiente, all’essere parti di Gaia. Sviluppare questa scelta in modo rigoroso ci condurrebbe ad esempio, in termini di prassi didattiche concrete, ad eliminare la valutazione individuale in diverse materie.
    Personalmente ritengo che dovremmo stendere una piattaforma, una bozza, delle priorità educative della scuola alla luce dei nuovi contesti sociali e mondiali che si stanno delineando che vada ben al di là della banalità degli assi culturali.
    Chiederei gentilmente a Fortunato Aprile di indicarci a quale testo fa riferimento in questo passaggio: “Invito tutti a leggersi le Indicazioni vigenti, per la scuola di base, redatte sotto la guida di Ceruti ed Edgar Morin per chiedersi poi se non valga la pena di impegnarsi a far prevalere lentamente la struttura enattiva, quella che costruisca le pratiche didattiche a partire da quelle indicazioni, attuandole nell’equilibrio di ragione ed emozione, ma anche nell’equilibrio di ragion pura e di ragion pratica”.

  7. Fortunato Aprile
    venerdì, 9 Settembre, 2011 at 21:56

    Mi riferivo al decreto 31 luglio 2007 e alla direttiva 68 del 3 agosto 2007 che riassumevano i lavori della Commissione presieduta da Mauro Ceruti, consulente Edgar Morin, e che riportano nelle oltre cento pagine le Indicazioni per il curricolo, ancora vigenti. I testi sono reperibili nel sito del ministero della pubblica istruzione:
    http://archivio.pubblica.istruzione.it/normativa/2007/allegati/dir_310707.pdf

    http://www.pubblica.istruzione.it/news/2007/indicazioni_190407.shtml

    Riporto uno dei documenti correlati alle Indicazioni, nel quale i contributi di Ceruti e di Morin sono più esattamente individuabili. Naturalmente, non vi troverà esatta corrispondenza con le sue perorazioni, ma similari considerazioni di opportunità formativa si.
    F. Aprile

    DOCUMENTO ALLEGATO DEL MPI
    Cultura scuola persona
    Verso le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione (Elementare e Media)

    LA SCUOLA NEL NUOVO SCENARIO

    In un tempo molto breve abbiamo vissuto il passaggio da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. Questo nuovo scenario è ambivalente: per ogni persona, per ogni comunità, per ogni società si moltiplicano sia i rischi che le opportunità.
    Gli ambienti in cui la scuola è immersa sono più ricchi di stimoli culturali, ma anche più contraddittori. Oggi l’apprendimento scolastico è solo una delle tante esperienze di formazione che i bambini e gli adolescenti vivono e per acquisire competenze specifiche spesso non vi è bisogno dei contesti scolastici. Ma proprio per questo la scuola non può e non deve abdicare al compito di scoprire la capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro esperienze, al fine di ridurre la frammentazione e il carattere episodico che rischiano di caratterizzare la vita dei bambini e degli adolescenti.
    L’orizzonte territoriale della scuola si allarga. Ogni specifico territorio possiede legami con le varie aree del mondo e con ciò stesso costituisce un microcosmo che su scala locale riproduce opportunità, interazioni, tensioni, convivenze globali. Anche ogni singola persona, nella sua esperienza quotidiana, deve tener conto di informazioni sempre più numerose ed eterogenee e si deve confrontare con la pluralità delle culture. Nel suo itinerario formativo ed esistenziale lo studente si trova a interagire con culture diverse, senza tuttavia avere strumenti adatti per comprenderle e metterle in relazione con la propria. Alla scuola spetta il compito di fornire supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un’identità consapevole e aperta.
    Non dobbiamo però dimenticare che in questa situazione di potenziale ricchezza formativa permangono vecchie forme di analfabetismo e di emarginazione culturale. Queste si intrecciano con analfabetismi di ritorno, che rischiano di impedire a molti l’esercizio di una piena cittadinanza. Inoltre, la diffusione delle tecnologie di informazione e di comunicazione, insieme a grandi opportunità, rischia di introdurre anche serie penalizzazioni nelle possibilità di espressione di chi non ha ancora accesso a tali tecnologie. Questa situazione nella scuola è ancora più evidente. Allo stato attuale delle cose, infatti, le relazioni con gli strumenti informatici sono assai diseguali fra gli studenti come fra gli insegnanti.
    Anche le relazioni fra il sistema formativo e il mondo del lavoro stanno rapidamente cambiando. Ogni persona si trova ricorrentemente nella necessità di riorganizzare e reinventare i propri saperi, le proprie competenze e persino il proprio stesso lavoro. Le tecniche e le competenze diventano obsolete nel volgere di pochi anni. Per questo l’obiettivo della scuola non può essere soprattutto quello di inseguire lo sviluppo di singole tecniche e competenze; piuttosto, è quello di formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri. Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate. Al contrario, la scuola può e deve realizzare percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno.
    In tale scenario, alla scuola spettano alcune finalità specifiche. La scuola deve offrire agli studenti occasioni di apprendimento dei saperi e dei linguaggi culturali di base; deve far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti di pensiero necessari per apprendere a selezionare le informazioni; deve promuovere negli studenti la capacità di elaborare metodi e categorie che siano in grado di fare da bussola negli itinerari personali; deve favorire l’autonomia di pensiero degli studenti, orientando la propria didattica alla costruzione di saperi a partire da concreti bisogni formativi.
    La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità o di svantaggio. Questo comporta saper accettare la sfida che la diversità pone: innanzi tutto nella classe, dove le diverse situazioni individuali vanno riconosciute e valorizzate, evitando che la differenza si trasformi in disuguaglianza; inoltre nel Paese, affinché le penalizzazioni sociali, economiche, culturali non impediscano il raggiungimento degli essenziali obiettivi di qualità che è doveroso garantire.

    CENTRALITÀ DELLA PERSONA

    Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e con l’unicità della rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.
    Sin dai primi anni di scolarizzazione è importante che i docenti definiscano le loro proposte in una relazione costante con i bisogni fondamentali e i desideri dei bambini e degli adolescenti. È altrettanto importante valorizzare simbolicamente i momenti di passaggio che segnano le tappe principali di apprendimento e di crescita di ogni studente.
    Particolare cura deve essere contemporaneamente posta alla formazione della classe come gruppo, alla promozione dei legami cooperativi fra i suoi componenti, alla gestione degli inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione. La scuola si deve costruire come luogo accogliente, coinvolgendo in questo compito gli studenti stessi. Si deve esplicitare l’importanza delle condizioni che favoriscono lo star bene a scuola, al fine di ottenere la partecipazione più ampia dei bambini e degli adolescenti a un progetto educativo condiviso. La formazione di importanti legami di gruppo non contraddice la scelta di porre la persona al centro dell’azione educativa, ma è al contrario condizione indispensabile per lo sviluppo della personalità di ognuno.
    La scuola deve porre le basi del percorso formativo dei bambini e degli adolescenti sapendo che esso proseguirà in tutte le fasi successive della vita. In tal modo deve fornire le chiavi per apprendere ad apprendere, per costruire e per trasformare le mappe dei saperi rendendole continuamente coerenti con la rapida e spesso imprevedibile evoluzione delle conoscenze e dei loro oggetti. Si tratta di elaborare gli strumenti di conoscenza necessari per comprendere i contesti naturali, sociali, culturali, antropologici nei quali gli studenti si troveranno a vivere e ad operare.

    PER UNA NUOVA CITTADINANZA

    La scuola persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale. La linea verticale esprime l’esigenza di impostare una formazione che possa poi continuare lungo l’intero arco della vita; quella orizzontale indica la necessità di un’attenta collaborazione fra la scuola e gli attori extrascolastici con funzioni a vario titolo educative: la famiglia in primo luogo.
    Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo. La scuola non può interpretare questo compito come semplice risposta a un’emergenza. Non deve trasformare le sollecitazioni che le provengono da vari ambiti della società in un moltiplicarsi di microprogetti che investano gli aspetti più disparati della vita degli studenti, con l’intento di definire norme di comportamento specifiche per ogni situazione. L’obiettivo non è di accompagnare passo dopo passo lo studente nella quotidianità di tutte le sue esperienze, bensì di proporre un’educazione che lo spinga a fare scelte autonome e feconde, quale risultato di un confronto continuo della sua progettualità con i valori che orientano la società in cui vive.
    La scuola perseguirà costantemente l’obiettivo di costruire un’alleanza educativa con i genitori. Non si tratta di rapporti da stringere solo in momenti critici, ma di relazioni costanti che riconoscano i reciproci ruoli e che si supportino vicendevolmente nelle comuni finalità educative.
    La scuola si apre alle famiglie e al territorio circostante, facendo perno sugli strumenti forniti dall’autonomia scolastica, che prima di essere un insieme di norme è un modo di concepire il rapporto delle scuole con le comunità di appartenenza, locali e nazionali. L’acquisizione dell’autonomia rappresenta un momento decisivo per le istituzioni scolastiche. Grazie ad essa si è già avviato un processo di sempre maggiore responsabilizzazione condiviso dai docenti e dai dirigenti, che favorisce altresì la stretta connessione di ogni scuola con il suo territorio.
    In quanto comunità educante, la scuola deve generare una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed essere anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola può affiancare al compito dell’«insegnare ad apprendere» anche quello dell’«insegnare a essere».
    L’obiettivo è quello di valorizzare l’unicità e la singolarità dell’identità culturale di ogni studente. La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve trasformarsi in un’opportunità per tutti. Non basta riconoscere e conservare le diversità preesistenti, nella loro pura e semplice autonomia. Si deve, invece, sostenere attivamente la loro interazione e la loro integrazione attraverso la conoscenza della nostra e delle altre culture, in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere. La promozione e lo sviluppo di ogni persona deve stimolare in maniera vicendevole la promozione e lo sviluppo delle altre persone: ognuno impara meglio nella relazione con gli altri. Non basta convivere nella società, ma questa stessa società bisogna crearla continuamente insieme.
    Il sistema educativo deve formare cittadini in grado di partecipare consapevolmente alla costruzione di collettività più ampie e composite, siano esse quella nazionale, quella europea, quella mondiale. Non dobbiamo dimenticare che fino a tempi assai recenti la scuola ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea. Oggi, invece, può porsi il compito più ampio di educare alla convivenza proprio attraverso la valorizzazione delle diverse identità e radici culturali di ogni studente. La finalità è una cittadinanza che certo permane coesa e vincolata ai valori fondanti della tradizione nazionale, ma che può essere alimentata da una varietà di espressioni ed esperienze personali molto più ricca che in passato.
    Per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale ad un tempo, una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali: non si possono realizzare appieno le possibilità del presente senza una profonda memoria e condivisione delle radici storiche. A tal fine sarà indispensabile una piena valorizzazione dei beni culturali presenti sul territorio nazionale, proprio per arricchire l’esperienza quotidiana dello studente con culture materiali, espressioni artistiche, idee, valori che sono il lascito vitale di altri tempi e di altri luoghi.
    La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo. I problemi più importanti che oggi toccano il nostro continente e l’umanità tutta intera non possono essere affrontati e risolti all’interno dei confini nazionali tradizionali, ma solo attraverso la comprensione di far parte di grandi tradizioni comuni, di un’unica comunità di destino europea così come di un’unica comunità di destino planetaria. Perché gli studenti acquisiscano una tale comprensione, è necessario che la scuola li aiuti a mettere in relazione le molteplici esperienze culturali emerse nei diversi spazi e nei diversi tempi della storia europea e della storia dell’umanità. La scuola è luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto.

    PER UN NUOVO UMANESIMO

    Le relazioni fra il microcosmo personale e il macrocosmo dell’umanità e del pianeta oggi devono essere intese in un duplice senso. Da un lato tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona; dall’altro, ogni persona tiene nelle sue stesse mani una responsabilità unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità.
    La scuola può e deve educare a questa consapevolezza e a questa responsabilità i bambini e gli adolescenti, in tutte le fasi della loro formazione. A questo scopo si deve comprendere che il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici connessioni. E’ quindi decisiva una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo.
    In tale prospettiva, la scuola potrà perseguire alcuni obiettivi, oggi prioritari.
    Dovrà insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza – l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia – in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme. Dovrà promuovere i saperi propri di un nuovo umanesimo: la capacità di cogliere gli aspetti essenziali dei problemi; la capacità di comprendere le implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnologie; la capacità di valutare i limiti e le possibilità delle conoscenze; la capacità di vivere e di agire in un mondo in continuo cambiamento.
    Dovrà diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita – possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture. Tutti questi obiettivi possono essere realizzati sin dalle prime fasi della formazione. L’esperimento, la manipolazione, il gioco, la narrazione, le espressioni artistiche e musicali sono infatti altrettante occasioni privilegiate per apprendere per via pratica quello che successivamente dovrà essere fatto oggetto di più elaborate conoscenze teoriche e sperimentali. Nel contempo, lo studio dei contesti storici, sociali, culturali nei quali si sono sviluppate le conoscenze è condizione di una loro piena comprensione. Inoltre, le esperienze personali che i bambini e gli adolescenti hanno degli aspetti a loro prossimi della natura, della cultura, della società e della storia sono una via di accesso importante per la sensibilizzazione ai problemi più generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio e nel tempo. Ma condizione indispensabile per raggiungere questo obiettivo è ricostruire insieme agli studenti le coordinate spaziali e temporali necessarie per comprendere la loro collocazione rispetto agli spazi e ai tempi assai ampi della geografia e della storia umane, così come rispetto agli spazi e ai tempi ancora più ampi della natura e del cosmo.
    Definire un tale quadro d’insieme è compito sia della formazione scientifica (chi sono e dove sono io nell’universo, sulla terra, nell’evoluzione?) sia della formazione umanistica (chi sono e dove sono io nelle culture umane, nelle società, nella storia?). Negli ultimi decenni, infatti, discipline una volta distanti hanno collaborato nel ricostruire un albero genealogico delle popolazioni umane e nel tracciare i tempi e i percorsi delle grandi migrazioni con cui il pianeta è stato popolato. La genetica, la linguistica, l’archeolo¬gia, l’antropologia, la climatologia, la storia comparata dei miti e delle religioni hanno cominciato a delineare una storia globale dell’umanità. Da parte loro, la filosofia, le arti, l’economia, la storia delle idee, delle società, delle scienze e delle tecnologie stanno mettendo in evidenza come le popolazioni umane abbiano sempre comunicato fra loro e come le innovazioni materiali e culturali siano sempre state prodotte da una lunga storia di scambi, interazioni, traduzioni. A loro volta, le scienze del vivente oggi allargano ancora di più questo quadro: le collaborazioni fra genetica, paleontologia, embriologia, ecologia, etologia, geologia, biochimica, biofisica, ci danno per la prima volta un quadro delle grandi tappe della storia della vita sulla terra e mostrano la stretta interdipendenza fra tutte le forme viventi.
    L’elaborazione dei saperi necessari per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria. Oggi la scuola italiana può proporsi concretamente un tale obiettivo, contribuendo con ciò a creare le condizioni propizie per rivitalizzare gli aspetti più alti e fecondi della nostra tradizione. Questa ,infatti, è stata ricorrentemente caratterizzata da momenti di intensa creatività – come la civiltà classica greca e latina, la Cristianità, il Rinascimento e, più in generale, l’apporto degli artisti, dei musicisti, degli scienziati, degli esploratori e degli artigiani in tutto il mondo e per tutta l’età moderna – nei quali l’incontro fra culture diverse ha saputo generare l’idea di un essere umano integrale, capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici aspetti del macrocosmo umano.

    Roma, 3 aprile 2007

  8. Antonella Astolfi
    lunedì, 12 Settembre, 2011 at 16:49

    Nella conclusione al suo post, Conni sottolinea, a mio avviso giustamente, la necessità di lavorare sul potenziamento (in alcuni casi, direi io, sulla costruzione ex novo) della capacità di concentrazione e di attenzione nei discenti. Avanza dunque la proposta d’introdurre nella scuola, a questo scopo, tecniche di rilassamento e di meditazione; a testimonianza del fatto che, evidentemente, si tratta non solo di bisogni condivisi, ma anzi, forse, talmente a lungo rimandati da risultare ormai non ulteriormente differibili, vorrei segnalare che nel collegio docenti del mio Liceo è stata avanzata una proposta analoga, nella convinzione che ormai l’interesse e la motivazione, pur rappresentando ingredienti indispensabili per un apprendimento autentico, sono però la condizione necessaria ma non (più) sufficiente per conseguire l’obiettivo. In particolare, sono le colleghe e i colleghi che insegnano al biennio ad aver notato come gli argomenti di studio possano tranquillamente interessare gli studenti per rimanere però poi pur sempre confinati nell’ambito di un’estemporaneità che troppo spesso non diventa affatto capacità di concentrarsi in maniera organica e sistematica o comunque di dedicare a una cosa qualunque un’attenzione continuativa che permetta di elaborare un minimo di percorso personale. Insomma, se motivare ed interessare gli alunni resta fondamentale (e tutto sommato, vorrei aggiungere, non certo così difficile, specie poi per chi ha la fortuna d’insegnare filosofia), tuttavia non basta. Di certo, le recenti riforme (o presunte tali) della scuola, spesso e volentieri declinate semplicemente come tagli, non soccorrono in questo senso. E’ per questo che ognuno di noi elabora quasi in clandestinità delle strategie didattiche che, almeno è quanto interessa me e tento di fare (o mi piacerebbe saper fare), mirano ad educare (proprio nel senso etimologico di “tirare-fuori”) l'”emozione deliberativa”, per ricitare di nuovo la Nussbaum, il cui bel libro è stato già ricordato dalla Professoressa Poncina. Al momento della discussione in classe, quest’educazione può passare per l’insegnamento della distinzione, tra un (primo) momento dialogico, condotto con l’ausilio del brain storming, e di un (secondo) momento, questa volta dialettico-argomentativo; di certo non è facile per l’insegnante mediatore far accettare il continuo richiamo alle regole della comunicazione di Habermas, e tuttavia, nella mia esperienza personale, una volta che le ha apprese lo studente diventa rapidamente in grado di misurare la cifra della differenza fra la comunicazione (e la “riflessione”) “di prima” e quella messa in atto successivamente. In questo modo, si pongono le basi anche dei prerequisiti per apprendere abilità più complesse, di tipo inferenziale e confutativo. Purtroppo, sviluppare una didattica laboratoriale di questo tipo richiede, almeno così facciamo nella mia scuola io e la collega con cui da anni lavoro in perfetta sinergia, l’ausilio di ore extracurricolari inquadrate nel contesto di progetti che coinvolgano un numero anche grande di alunni (ripartito però in piccoli gruppi, nel momento operativo). Sarebbe bello poter uscire finalmente dalla clandestinità e condurre questo ed altri esperimenti, che sicuramente fioriscono copiosi nelle scuole italiane, alla luce del sole, e non sempre “contro” o “nonostante” una qualche riforma di chicchessia.

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