L’illuminismo fenomenologico e la tradizione milanese. Lettera aperta a Vincenzo Costa

venerdì, 18 Dicembre, 2020
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Caro Enzo,

La fenomenologia come un illuminismo: un tema troppo accattivante per non riprenderlo e non discuterne! Per prima cosa, vorrei associarmi di cuore a questa tua ascrizione della fenomenologia anche (per quanto riguarda la sua versione italiana e milanese) alla grande tradizione dell’Illuminismo lombardo. Io stessa ho spesso usato questa formula, – anche come un modo di guardare il più generosamente possibile al passato, e come a un auspicio, a una speranza, a un impegno per il futuro.

Da una vita sostengo, in effetti, che la dolce luce dei Lumi accende di nuovo il cuore stesso della fenomenologia del Novecento, e lo fa in primo luogo con una chiara (ri)elaborazione della nozione di ragione, rielaborazione in cui i classici videro sovente il senso e il filo comune del loro lavoro.

E proprio per questo sento il bisogno di capire meglio l’idea di ragione che tu difendi e anzi ascrivi, diciamo così, ai classici della fenoenologia. Tu vedi due possibilità, che sono entrambe da rigettare, e le poni in un nesso dialettico, in cui l’una genera l’altra: Universalismo astratto e Relativismo culturale. L’errore dunque sarebbe considerare la ragione

“come una struttura sovratemporale, e questo genera una sorta di universalismo astratto, non privo di complicazioni, poiché poi non si sa bene come dare ragione della storicità dei nostri pensieri, e proprio questo può generare, come reazione, una sorta di relativismo e di irrazionalismo che dissolve l’idea di ragione nella particolarità delle culture”.

Ora, io non so che cosa tu abbia, fenomenologicamente, in mente, quando chiami la ragione una “struttura” sovratemporale, secondo una concezione che giustamente ti pare da rigettare.  Dal contesto risulta, credo, che hai in mente un concetto più o meno hegeliano, di una sorta di gran prosopopea che attraversa la storia e segretamente la guida, il Logos, quell’Io che è un Noi, lo Spirito, o qualcosa del genere. Infatti a questa cosa si riferisce la critica di Banfi.

La critica di Banfi, appunto, tu la fai tua. Banfi non critica forse direttamente Hegel, ma scrive:

«i concetti filosofici non rappresentano l’essere assoluto, ma sono i momenti dell’ordine trascendentale d’unità dell’esperienza. Se questa varietà e relatività complessa del reale si voglia chiamare vita, la filosofia è filosofia della vita, ma nel senso che la vita non è vita – non ha la propria unità – se non nel sistema dell’autonomia trascendentale della ragione, o, in altre parole, se non in quanto è più che vita o processo di relatività, e trascende se stessa, come libertà, nell’idea».

La “ragione”, qui, non risulterebbe “sovrastorica”, perché sarebbe “l’ordine trascendentale dell’unità dell’esperienza”.

Mi fermo perché già comincio a non capire più niente. Questa sarà pure una critica del concetto hegeliano di ragione, ma è tutto fuorché una critica fenomenologica di esso (a meno di equivocare sul senso hegeliano di “fenomenologia”). Per “ordine” non capisco che cosa Banfi intenda, se non, probabilmente, qualcosa come una direzione intrinseca della storia a partire dalle “strutture” materiali in cui gli esseri umani sono inseriti. Ci sono molti indizi nell’opera di Banfi in questa direzione, e ne darò un esempio più tardi.

Ma tornando al punto, che c’entra questo con ciò che, mettendo fra parentesi i nostri pregiudizi e riflettendo sul nostro esercizio di “ragione”, così come lo pratichiamo e lo sperimentiamo gli uni con gli altri, possiamo intendere per “ragione”? E se prendiamo ad esempio non solo le conversazioni (e le prese di posizione, le decisioni, le scelte) quotidiane, ma anche quelle filosofiche, allora dobbiamo ricordarci anzitutto di mettere fra parentesi (salvo riconsiderarli più tardi: potrebbero anche rivelarsi interessanti!) gli usi filosofici “tecnici” del termine. Compreso quindi l’uso hegeliano del termine “ragione” e di qualche suo antecedente neoplatonico (tuttavia mai espresso con il termine “ratio”, ma eventualmente con termini come “logos”, ipostasi dell’Uno, etc.). Naturalmente fu un uso, quello hegeliano del termine, ripreso e modificato da Marx e dalla tradizione cui Marx diede luogo. Che questo però aumenti anche di uno iota il tasso di intelligibilità fenomenologica del termine “ragione” così usato, mi pare dubbio.

Quindi, in uno spirito illuministico, propongo di ricominciare da capo: che cosa possiamo intendere per “ragione”? Con questa parola ci riferiamo di solito a una certa facoltà o disposizione che diciamo distintiva della specie homo sapiens: ma fenomenologicamente non ci basta né l’analitica dell’uso linguistico né l’approccio “in terza persona”, antropologico o sociologico. Dobbiamo invece considerare esempi in prima persona di ciò che chiamiamo esercizio di ragione. E se ci proviamo, vediamo che con questa parola non intendiamo solo una certa disposizione che troviamo in noi stessi,  ma anche e soprattutto una certa disponibilità a dar ragione, se richiestine da altri o da noi stessi, di quello che affermiamo vero (ragione teorica) e di quello che facciamo (ragione pratica). Una disponibilità che ricade completamente nell’ambito della nostra libertà: parlare e agire razionalmente è – semmai – un dovere, comunque non certo una necessità di natura! Siamo del tutto liberi di parlare irrazionalmente, ancorché oltre certi limiti questo abbia la conseguenza che nessuno ci capisce più (anche se questa è spesso un ottimo sistema per avere successo). Come quasi sinonimo di “ragione” proporrei: disponibilità a cercare evidenza o giustificazione, per il dire o il fare.

Come ben sai, la tradizione fenomenologica aggiunge a questa diade il concetto di ragione assiologica (in Husserl c’è sempre questa triade: ragione teorica, assiologica, pratica, da un capo all’altro delle Idee che tu così ben conosci). Questo ci permette anche di spiegare quella parola “dovere” che ho con beneficio di dubbio inserito nel capoverso precedente. Anche i giudizi di valore sono giustificabili razionalmente, cioè possiamo esibire per essi evidenza accessibile a chi ce la richieda.  Perciò, se crediamo vero, e siamo disposti ad argomentare, che sia meglio avere e offrire buone ragioni per quello che facciamo e quello che diciamo, piuttosto che parlare a casaccio ed agire ad arbitrio, allora parlare ed agire razionalmente è un dovere.

Come sai, d’altra parte i fenomenologi (in particolare Husserl, ancora) generalizzano e approfondiscono ancora la nozione di ragione, facendoci notare che c’è una “giurisdizione della ragione” su qualunque episodio anche minimo di coscienza, alias vissuto intenzionale: e questa consiste nella possibilità sempre data (non: necessariamente colta, anzi!) di chiederci: sarà giusto? (vero, appropriato, adeguato, opportuno etc.) – si tratti di un giudizio, di un’emozione, di una percezione, di un ricordo, di una decisione…. Ecco perché il fenomenologo definisce l’uomo come “l’animale normativo” (NB: non perché fa le norme, ma perché non può vivere senza, e tuttavia può sempre vagliarle e metterle in questione).

Vagliare, mettere in questione: naturalmente, è quello che da sempre Socrate ci insegna a fare – in qualche modo il marchio genetico della filosofia. Mi sembra che a un certo punto anche tu dica qualcosa di simile, sia pure parlando di critica dell’”esistente”, che mi pare un po’ meno perspicuo. Immagino che intenda quello che c’è ma non è giusto che ci sia.

E ora torno finalmente a noi. Non capendo affatto che cosa Banfi intenda per “ragione”, non capisco neppure che cosa intenda per “esperienza” di cui la ragione sarebbe l’”unità dell’ordine trascendentale”. Senonché tu chiosando ancora Banfi mi spieghi che per “ragione” bisogna intendere “una potenza irreale che tuttavia interagisce dialetticamente con la realtà e l’esperienza concreta, rappresentandone, per così dire, l’interna dinamica”.

Una “potenza”? Mah, intendiamoci sulle parole. Non è una disposizione che è sempre e soltanto ciascuno di noi a esercitare o no, comunque fallibilmente, e precisamente nelle circostanze della sua esperienza? Cioè, a partire dalla percezione (vagliata, critica) dei dati di fatto e anche di valore (delle salienze, delle qualità assiologiche apparenti delle azioni e delle situazioni, ciascuno in base alle proprie più sincere e fondate, vagliate, convinzioni)?

Ma che vuol dire che “interagisce dialetticamente con la realtà e l’esperienza concreta”?

Facciamo un esempio. Ignazio Silone si trovò nel 1927 a Mosca, nella sua qualità di delegato della gioventù comunista italiana, a una riunione del Comintern (per i più giovani: la Terza Internazionale,  l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti attiva dal 1919 al 1943). Con lui era Palmiro Togliatti, e insieme rappresentavano il Partito Comunista italiano. Silone assistette per la prima volta al metodo staliniano di far votare nei congressi dell’Internazionale la condanna degli avversari sulla base di documenti ignoti ai votanti (si trattava di Trotzki).  Quella volta, entrambi si opposero in faccia a Stalin alla mozione. Stalin la ritirò. Al ritorno in Italia, lessero la Pravda del giorno dopo, che dichiarava la condanna di Trotzki votata all’unanimità. Togliatti aveva inghiottito la pillola e sostenuto Stalin. Silone, pur con scelta tormentata, lasciò il partito comunista (per lui antifascista e in esilio, questo significava la fame. Per fortuna in Svizzera scoperse la sua vena di scrittore, e Fontamara, uscito nel 1933, fu subito tradotto in una ventina di lingue).

Nel 1950 uscì “Il dio che ha fallito”, una raccolta di saggi di Arthur Koestler, Ignazio Silone Richard Wright, André Gide, Louis Fischer, Stephen Spender. Silone nel suo “Uscita di sicurezza” racconta questo e altri episodi simili – e ogni ragazzo, ogni apprendista filosofo ancora dovrebbe leggere questo testo. Sull’”Unità” uscì una recensione di Togliatti specificamente dedicata a Silone: “Contributo alla psicologia di un rinnegato”. E pazienza: ai politici succede anche questo, un incidente sul lavoro si potrebbe dire. Ma si potrebbe credere che il lavoro del filosofo sia un altro.

Già. Cosa scrisse Antonio Banfi su quella testimonianza di Silone, qualche mese dopo? Ecco, si tratta di una filippica sull’”Anticomunismo dei traditori”, in cui oppone “La grande realtà storica del comunismo, che in ciascuno che vi partecipi seriamente esalta tutte le forze dell’umanità” alle “velleità ideologiche”di “egoisti dottrinari”, i quali “isolati, falliti, esasperati e nostalgici non hanno altra via a ricostruire almeno un fantasma della propria personalità che avvilendo il proprio corruccio nel tradimento”.

La cosa interessante di Banfi, è che insiste molto sulla “debolezza” di questi “isolati”: ma non per opporla alla forza, come sarebbe logico, ma, hegelianamente-marxianamente, all’”universale”: “tradimento di deboli che non attira che deboli e non ha cruccio di universalità umana”.

Ecco. Non ho inteso questo esempio come argomento ad personam, ma solo per poter rivolgere a te, Enzo, più chiaramente questa domanda:

L’esperienza di disvalore (metodo staliniano, cedevolezza dei più) di Silone, e i suoi conseguenti giudizi, assiologico e pratico, cui fornì dovizia di buone ragioni in quel saggio, li ascriveresti a un “universalismo astratto”? Perché è proprio così che l’intende Banfi, opponendo a Silone l’universale concreto della ragione storica.

Perché allora poi potremmo venire a Paci, uomo di buona volontà che come Banfi detestava l’”universalismo astratto”. Come un commentatore del tuo post, Raoul Kirchmayr,  ha notato, “quella tradizione illuministica, soprattutto agli inizi degli anni Sessanta si incanalò nella prospettiva neomarxista”.  Dove l’intelletto astratto e soprattutto  la prospettiva “antistorica” dell’etica continuava ad avere altrettanto cattiva stampa che sotto il logos hegeliano: Camus e Czeslaw Milosz ne seppero qualcosa. In effetti, nella Prefazione del ‘68 di Paci alla traduzione italiana della Krisis troviamo di tutto: dagli intellettuali zaristi che snobbavano i ragionamenti di Lenin e di Trotzki, all’università di Nanterre e delle “idee che hanno fatto tremare la Francia”, dallo strutturalismo e dalla forza che gli si oppone, “la dialettica e la filosofia della storia” di cui la fenomenologia diventa una sorta di appendice, a Marx,  Lukacs, Sartre, Galbraith e  Joan Robinson,  Ricardo  e di Mandeville, Black Power, il  potere studentesco e la teologia della liberazione, il feticismo delle merci e il valore lavoro, dove tutto questo confluisce nella “rivoluzione fenomenologica” che sta facendo la storia. Ebbene, viva il ’68.

Ma non una parola, invece, sul senso che l’evocazione accorata e amarissima, da parte di Husserl, dell’Inno alla Gioia, come espressione dell’”epoca tanto diffamata dell’Illuminismo”, un’epoca invece “venerabile” (Crisi § 3), ha sotto la penna di un filosofo privato della venia docendi dalle leggi antisemite approvate dall’ex allievo. E di un filosofo che vedeva tanto apertamente e violentemente negato, non solo nel delirio dei violenti, ma anche e soprattutto nell’acquiescenza dei sapienti, il compito socratico della filosofia. Cioè il chiedere ragione – agli altri e a se stessi – del dire e del fare, di ogni certezza e di ogni decisione privata e pubblica, contro qualunque “abbandono” alla forza superiore di qualche sciagurata personificazione più o meno mitologica, come il popolo o la classe operaia o la dialettica o il destino o il senso della storia o lo spirito del mondo.

D’altra parte come tu ben sai l’intero filone novecentesco di critica dell’Illuminismo (e della Modernità, e della Macchinazione, e della Tecnica, e infine, come all’inizio, anche della democrazia, per non parlare della ragione “cosmopolitica” così cara a Husserl) proprio sul supposto “universalismo astratto” della ragione illuministica si basa. Naturalmente non mi riferisco solo a Heidegger ma anche a Adorno –Horkheimer, alla loro idea che l’Illuminismo conduce direttamente ai campi di sterminio. Medium la Ragione, anzi la Rationalisierung e la calcolabilità universale.

Sono convinta anch’io che dobbiamo mettere in valore e far crescere il buono della tradizione fenomenologica italiana e milanese – ho contribuito a lanciare il numero di Phenomenological Reviews dedicato a Giovanni Piana al quale hai contribuito anche tu e l’intero staff fenomenologico “storico” della Statale: e dobbiamo esserne orgogliosi. Dunque, costruiamo questa Casa dei Dolci Lumi : oltre i classici, certo, e sempre più a contatto con le cose stesse, certo. Ma facciamolo senza mai far torto alla chiarezza e all’accessibilità (universale? Io lo spero, ma altrimenti, discutiamone) delle nostre ragioni. Discutere è un modo di farlo.

Per leggere il post di Vincenzo Costa a cui Roberta De Monticelli fa riferimento, clicca qui.

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Un commento a L’illuminismo fenomenologico e la tradizione milanese. Lettera aperta a Vincenzo Costa

  1. vincenzo
    venerdì, 18 Dicembre, 2020 at 21:20

    cara Roberta una replica eccellente, che mi conforta nell’avere scritto le mie breve righe, se esse hanno suscitato un argomentare così bello che unisce ragioni e affezioni, amicizia e dissenso o dissenso nell’amicizia. Mi prendo il tempo di pensarci anche io, perché il tema merita che ci si prenda tempo, e poi continuiamo, in parte sul lab e in parte a cena, superato il covi. Intanto grazie e un abbraccio

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